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Il disastro del Challenger

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Il 28 gennaio 1986, in una mattina insolitamente fredda, alle 11:38 lo Space Shuttle Challenger parte da Cape Canaveral per la sua decima missione verso l’orbita bassa.

Il suo viaggio si interrompe però appena 73 secondi più tardi quando va in pezzi in un’enorme nube bianca davanti allo sguardo attonito di centinaia di spettatori, tra cui i familiari dei membri dell’equipaggio.

Tra i membri dell’equipaggio c’era l’insegnante di liceo Christa McAuliffe, selezionata per il progetto “Teacher in Space”, che avrebbe dovuto condurre in diretta dallo spazio due lezioni ai bambini di tutta la nazione.

Si è ripetutamente detto che milioni di americani videro in diretta l’incidente, ma in realtà la maggior parte di essi lo vide registrato nel corso della giornata, durante la quale tutte le reti televisive trasmisero incessantemente le immagini della tragedia.

 

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L’incidente, che causò la morte dei sette membri dell’equipaggio, colpì profondamente l’opinione pubblica americana e determinò un brusco stop di tutte le missioni dello Space Shuttle, che durò per oltre 2 anni e mezzo fino al settembre del 1988.

La causa dell’incidente fu piuttosto banale.

Come appurò la commissione presidenziale Rogers, istituita dal presidente Ronald Reagan dopo l’incidente, la causa dell’incidente fu piuttosto banale: il malfunzionamento di un O-ring, in pratica un grande anello di gomma, una guarnizione che avrebbe dovuto sigillare una delle giunture fra le diverse sezioni del Booster destro dello Space Shuttle.

 

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5aGli SRB (Solid-fuel Rocket Booster) sono i due grandi razzi laterali a combustibile solido (perclorato di ammonio e alluminio, con una piccola quantità di ossido di ferro, il tutto in una matrice di polimero sintetico) che fornivano una forte spinta aggiuntiva iniziale allo Space Shuttle.

Una volta esaurito il combustibile si staccavano dal grande serbatoio esterno dello Space Shuttle e cadevano in mare, dove venivano recuperati per il loro riutilizzo (con un’operazione non proprio economica).

Nel booster si trovavano quattro blocchi di combustibile, quattro sezioni unite da giunture (field joint) sigillate appunto ciascuna da due O-ring lubrificati, di cui uno di backup.

Gli O-ring per giuntura furono poi portati a tre dopo l’incidente.

 

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Le cause

Vi furono più cause concomitanti, la principale fu l’inusuale bassa temperatura, per cui gli O-ring non erano stati testati.

Come sanno bene i (pochi) appassionati di razzomodellismo, dove i motori con impulso superiore ai 160 Ns funzionano con un combustibile solido molto simile a quello degli SRB dello Space Shuttle, proprio il corretto posizionamento degli O-ring lubrificati è una fase delicata nella preparazione del motore.

Se l’O-ring non sigilla correttamente i blocchi di combustibile, il lancio si risolve solitamente in un “CATO” (un cedimento catastrofico) sicuramente spettacolare, ma che determina la perdita del modello e del contenitore in alluminio anodizzato del motore.

 

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Nel booster destro del Challenger accadde qualcosa di simile, anche se ovviamente su un’altra scala.

La causa principale, ma non l’unica, del malfunzionamento della guarnizione del booster destro fu la bassa temperatura, che quella mattina a Cape Canaveral era di -1 °C e la notte precedente era scesa addirittura a -8 °C .

La gomma della guarnizione si era così indurita e aveva perso elasticità. L’O-ring non era stato progettato per operare al di sotto di una temperatura minima di 4 °C e non era mai stato testato sotto i 10 °C.

Il problema legato alle basse temperature era stato segnalato già da molto tempo dagli ingegneri della Thiokol, società che produceva le sezioni degli SRB, ma l’avvertimento fu ignorato tanto dalla Thiokol quanto dai vertici della NASA.

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Va comunque detto che le basse temperature non furono l’unica causa del malfunzionamento della giuntura, incisero sicuramente anche altri fattori concomitanti come la qualità dei materiali e l’usura dovuta al riutilizzo degli SRB.

É possibile, ma non è stato accertato, che ci sia stato un non perfetto montaggio dell’ultima sezione del booster da parte della NASA nel Vehicle Assembling Building.

Le sezioni degli SRB venivano infatti preparate dalla società Thiokol, ma venivano poi inviate alla NASA che provvedeva all’assemblaggio. I tecnici NASA potrebbero aver danneggiato loro stessi l’O-ring o aver contaminato il lubrificante.

Le responsabilità della NASA sono dunque evidenti.

Le responsabilità della NASA sono dunque evidenti, ma i responsabili NASA che decisero di autorizzare il lancio il 28 gennaio, dopo diversi rinvii, non erano a conoscenza delle preoccupazioni espresse dagli ingegneri riguardo l’affidabilità degli O-ring e i rischi riguardanti le temperature inferiori ai 10 °C, altrimenti avrebbero quasi certamente annullato il lancio.

 

 

 

La dinamica dell’incidente

La commissione presidenziale Rogers, della quale facevano parte anche Neil Armstrong e Chuck Yeager, tramite un’accurata analisi di tutti video del lancio e dei rottami recuperati nell’oceano, ben il 45% dell’orbiter e circa il 50% dell’intero veicolo, riuscì a determinare con precisione la dinamica dell’incidente.

v1p23Già pochi istanti dopo l’accensione dei motori sulla rampa di lancio (T +0.678) era visibile uno sbuffo di fumo grigio scuro in corrispondenza della giuntura più bassa del booster di destra, segno che c’era una perdita, ma non ancora determinante per il cedimento della struttura.

Se infatti quello fosse stato l’inizio dell’incidente, il veicolo sarebbe esploso nel giro di pochi millisecondi sulla rampa di lancio, come appurò la commissione Rogers.

I lembi metallici della giuntura si erano piegati verso l’esterno successivamente, quando gli O-ring principale e secondario fallirono nel sigillare i gas incandescenti (2760° C) ad alta pressione provenienti dall’interno del razzo, che perforarono così il booster come una lancia termica danneggiando poi gravemente anche il grande serbatoio esterno arancione.

Dopo 37 secondi dal lancio (T +37) e per 27 secondi lo Space Shuttle fu sottoposto a violente variazioni della velocità del vento in orizzontale e verticale (wind shear), le più violente mai registrate in un lancio dello Shuttle, ma di per sé queste non avrebbero costituito un serio problema.

Tra 45 e 65 secondi sono visibili diversi flash luminosi, che però non sono correlati con l’avaria del booster ed erano già stati osservati in precedenti missioni.

Le prime vere fiamme fuoriuscite dal booster destro si possono notare a T +58.788. Dopo circa 60 secondi le fiamme si espandono e vengono spinte da effetti aerodinamici intorno al booster fino a colpire il serbatoio esterno e minare gravemente l’integrità della struttura con cui il booster era attaccato al serbatoio. Due secondi più tardi il sistema automatico di controllo dei motori cercò di compensare le forze generate dalla perdita, ma fu tutto inutile.

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Dopo 64.660 secondi iniziò la perdita di idrogeno liquido dal serbatoio esterno.

A T +72.284 il booster destro si staccò violentemente dal serbatoio arancione, dopodiché fu una questione di pochi millisecondi.

Pochi istanti dopo infatti, a T +73.124 il serbatoio esterno cominciò a cedere completamente quando il comparto contenente l’idrogeno fu violentemente spinto dalla perdita d’idrogeno fin dentro il comparto dell’ossigeno.

Si formò allora un’enorme nube di vapore acqueo condensato, fumo e gas che bruciarono molto rapidamente.

A T +73.137 a circa 15 km di quota e mach 1,92 tutto andò completamente in pezzi, tranne i due booster che continuarono la loro corsa incontrollata per circa 30 secondi prima di essere fatti esplodere da terra dal Range Safety Officer.

 

 

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Il triste destino dell’equipaggio

Qui ci sono da sfatare due miti, il Challenger non fu distrutto da una violenta esplosione, che non ci fu, ma andò in pezzi a causa delle violenti forze aerodinamiche a cui fu sottoposto e l’equipaggio non morì istantaneamente e forse nemmeno perse conoscenza.

 

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Il Challenger non fu distrutto da un’esplosione e l’equipaggio non morì subito e forse nemmeno perse conoscenza.

Il Challenger si spaccò in più parti, ma la cabina dell’equipaggio rimase intatta e le forze a cui furono sottoposti gli astronauti non possono averne causato la morte o ferite gravi.

Ci sono prove che pochi istanti dopo la distruzione del veicolo almeno 3 scorte d’emergenza di ossigeno delle tute erano state attivate, quindi almeno 3 astronauti tra cui il Comandante erano ancora coscienti e vivi.

La cabina raggiunse i 20 km di quota e poi cadde verso l’oceano in caduta libera per oltre 2 minuti, prima di impattarne la superficie a 333 km/h e tutto fa pensare che quello fu il momento in cui i 7 astronauti morirono.

challenger_4_200_200Non ci sono registrazioni di quei terribili 2 minuti e 45 secondi, ma secondo diversi astronauti il comandante deve aver cercato fino all’ultimo di manovrare il veicolo, inconsapevole che la cabina era staccata dal resto del Challenger.

Bisogna aggiungere che una volta lasciata la rampa di lancio 39B il destino dei 7 astronauti era segnato, non c’era infatti alcun modo di salvarli, non esistevano sistemi di espulsione dalla cabina, né ne furono introdotti successivamente, perché troppo costosi e soprattutto tecnicamente troppo complessi.

 

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I componenti dell’equipaggio della missione STS-51-L:

  1. Francis R. (Dick) Scobee – Comandante
  2. Michael John Smith – Pilota
  3. Ellison S. Onizuka – Specialista di Missione 1
  4. Judith Arlene Resnik – Specialista di Missione 2
  5. Ronald Erwin McNair –  Specialista di Missione 3
  6. S. Christa McAuliffe – Specialista del carico 1 / programma “Teacher in Space”
  7. Gregory Bruce Jarvis – Specialista del carico 2

 

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I resti dei 7 astronauti furono recuperati nell’Oceano Atlantico a 30 metri di profondità davanti alle coste della Florida e seppelliti nel cimitero monumentale di Arlington in Texas.

Non li dimenticheremo mai, e non dimenticheremo l’ultima volta che li vedemmo, questa mattina, mentre si preparavano per il loro viaggio, salutavano e “fuggivano dalla scontrosa superficie della Terra” per “sfiorare il volto di Dio”.

Tratto dal discorso del presidente Ronald Reagan in ricordo degli astronauti della missione STS-51-L

 

L’analisi del disastro del Challenger permise di incrementare gli standard di sicurezza del volo spaziale umano.

L’analisi del disastro del Challenger permise di incrementare gli standard di sicurezza del volo spaziale umano, che rimane comunque un’attività ancora molto rischiosa e in un certo senso ancora pionieristica, come ha dimostrato il successivo incidente mortale, questa volta nella fase di rientro, dello Space Shuttle Columbia nel 2003.

Lo Space Shuttle cessò definitivamente la sua attività nel 2011 con gli ultimi voli degli orbiter superstiti: Discovery STS-133, Endeavour STS-134 e infine Atlantis STS-135 l’8 luglio 2011.

Dal luglio 2011 gli U.S.A. non hanno più un mezzo per portare astronauti in orbita autonomamente, il prossimo sarà la capsula Dragon della compagnia privata SpaceX.

 

 

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