C’era qualcosa di rilassante nel camminare in quella città. Lo faceva sentire in pace con sé stesso muoversi in quel labirinto di calli e stradine.
Riusciva a pensare meglio rendendo il suo vagare senza meta una perfetta metafora della sua sconnessa attività meditativa.
Chi era? O forse non era nemmeno quello il punto… perché era così? Questo lo tormentava.
Mentre Janis Joplin gorgheggiava dal suo iPod continuava a chiedersi il perché di questo istinto ferino, predatorio. Guardava le vecchie facciate delle case, rese inquietanti dall’oscurità e si rendeva conto di essere come loro, una maschera pronta a crollare da un momento all’altro ed a rivelare il suo vero aspetto…ed il suo era feroce e spietato.
L’acqua dei canali sciabordava pigramente per qualche barchetta passata in lontananza e lui inspirava profondamente quell’aria carica di storia e mistero chiedendosi, come al solito senza risposta, se esistesse gente come lui.
D’un tratto si infilò in un sottoportico scuro ed angusto, spaventoso per certi versi. Ma lui aveva imparato da tempo che nulla lo spaventava, era la gente a dover aver paura di lui.
Prosegui nell’oscurità sempre più fitta, con l’umidità che sembrava schizzare fuori dai muri e sentì tutti i suoi sensi acuirsi. Sapeva cosa gli stava succedendo. Si fermò e cominciò a mettere a fuoco una crepa sul muro.
Poi udì lo sgattaiolare furtivo di un topo. Percepiva chiaramente l’odore del muschio che parassitava le pareti. Deglutì faticosamente, le tempie iniziarono a pressare a tamburo battente. Aveva bisogno di mentire.
Doveva sferzare il suo ego. Doveva gonfiarlo a dismisura facendo credere agli altri quello che voleva. Quella che era una semplice passeggiata ad un certo punto aveva assunto una sua ragion d’essere: il suo istinto predatorio aveva preso il sopravvento.
Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno da soggiogare con le sue parole, qualcuno che pendesse dalle sue labbra mentre lui raccontava le cose più incredibili.
Aveva bisogno di dominare con il suo carisma un’altra persona fino a renderla succube, schiava delle sue bugie, innamorata di una delle sue maschere, di una delle sue mille personalità.
Aveva bisogno di una preda e le sue bugie sarebbero state la sua esca. Sapeva già come sarebbe andata a finire: avrebbe trovato una ragazza, l’avrebbe irretita, conquistata, e poi se la sarebbe portata a letto. Nella migliore delle ipotesi.
Aveva imparato che le bugie hanno le gambe corte e la sua sfida era sempre stata quella di fargli fare il più strada possibile. Ma sapeva anche che le cose sarebbero potute andare diversamente.
Qualcosa avrebbe potuto far crollare il suo castello di menzogne…e l’esperienza gli aveva insegnato che non l’avrebbe presa molto sportivamente. Quante volte era successo? Dieci? Forse quindici? Aveva disseminato di cadaveri tutto il veneto orientale.
Non era stato contento di farlo ma era successo… così… non sopportava che la sua principale fonte di soddisfazione potesse essere inquinata dalla brillantezza o dall’acume di qualcun altro. Era lui quello acuto, quello che riusciva a conquistare, a giocare con le parole ed il suo gioco era troppo importante per essere interrotto. Le altre persone erano solo comparse inconsapevoli della recita nella sua mente, chiedeva loro solo di attenersi ad un ruolo.
Voleva solo che rimanessero affascinate da lui, che finissero nella sua rete di menzogne, che dessero una pompata alla sua autostima facendosi conquistare. Ne aveva un bisogno malato. Lo sapeva, lui si odiava, non era niente, nessuno, una forma senza contenuto, un fisico senza un’identità definita.
Aveva bisogno dell’approvazione incondizionata degli altri per rimanere a galla. Ormai dei brividi gli percorrevano le gambe, che sembravano quasi muoversi da sole verso l’unico posto dove avrebbe potuto trovare qualcuno da attirare nella sua rete.
Attraversò le calli riflettendo nuovamente sulla sua condizione, ora che il suo corpo richiedeva prepotentemente il suo tributo di adrenalina. Come un pensiero fisso che non riusciva a scacciare si chiese nuovamente se ci fosse qualcuno come lui.
Dopo gli ultimi due omicidi la sua mente non smetteva di interrogarsi e la solitudine, la mancanza di condivisione lo facevano sentire diverso, a disagio con sé stesso. Ad un certo punto però l’ombra incombente della città e delle sue stradine si diradarono, e così si fece largo nel suo cervello un barlume di lucida follia.
Alla fine del suo peregrinare solitario la luce aveva invaso il campo visivo, al silenzio interrotto solo dal rumore dei suoi passi si sostituì un sommesso vociare che intuiva appena sotto la chitarra di Jimi che imperversava piangendo Mary.
Era giunto ad uno spiazzo aperto, illuminato, pieno di ragazzi in festa, il cuore pulsante di quella città che per lunghi tratti sembrava essere avvolta in un sonno millenario. L’ombra rimaneva nella calle alle sue spalle, prima di fare un passo nella luce mise una mano nella tasca del giaccone e strinse forte il manico di un coltello. Provò un brivido di emozione.
Aveva spezzato colli, rotto spine dorsali, soffocato con la sola forza di una mano, gettato un corpo innocente da 15 metri d’altezza ma non aveva mai usato un’arma. Si assicurò che fosse lì, nella tasca, e poi si adentrò nel centro del piazzale camminando tra due ali di folla festante.
Alzò il volume della musica, infastidito da quel casino che non gli permetteva di concentrarsi. Springsteen cantava dei giorni di gloria quando d’un tratto tra un nugulo di persone ne intravide una che colpì la sua attenzione. Per un momento sembrò che quella figura appena illuminata fosse l’unica cosa a colori di un mondo che si tingeva di bianco e nero.
La vide da sola, fuori dalla porta di un piccolo bar, armeggiare all’interno di una grossa borsa viola. Aveva una gonna scozzese e degli stivali, un giubbetto in pelle ed un viso incantevole incorniciato da un ammasso scomposto di capelli corti tutti spettinati.
L’aspetto era vagamente punk rock, ma nonostante tutto molto aggraziato ed a suo modo elegante. Aspettò ancora un secondo trattenendo il fiato finché lei estrasse dalla borsa una sigaretta se la accese con disinvoltura.
Aveva un’aria così fragile, così indifesa, indossava una maschera da dura che nascondeva paure ed insicurezze talmente radicate da voler essere cacciate nel buco più profondo del suo animo. La scelse, senza neanche doverci pensare troppo.
Le si parò davanti creando un vuoto tra loro e tutto il mondo che gli girava intorno. Prima la guardò fissa negli occhi, cogliendo la sua diffidenza, poi abbassò il capo, sfilò le cuffiette dell’ipod che pompavano Night Prowler degli AC/DC e le disse: «Fumi da sola?» «Mi aiuta a pensare» rispose lei.
Poi sfilò dalla borsa il pacchetto e gliene offrì una. «Così fumiamo in compagnia però» «Mi aiuta a non pensare» «Beh, allora…lieto di aiutarti a distogliere la tua mente da cattivi pensieri» «Già» mormorò lei inspirando profondamente il fumo «Cattivi pensieri…» «Ehi, devi aver proprio avuto una brutta giornata» «E il peggio deve ancora venire» «Che succede?» «Succede che tra un minuto starò parlando dei miei problemi con uno sconosciuto» «Eh…ti capisco, la prospettiva non è allettante.
Comunque possiamo fare così» disse lui tendendole la mano con la quale aveva appena accarezzato l’elsa del coltello «io mi chiamo Marco. Almeno adesso non potrai dire che stai parlando con uno sconosciuto» «Piacere, Sabrina» rispose lei stringendogli la mano.
«Bene» pensò lui «questa sera sono Marco. Chi è Marco? Cosa fa nella vita Marco?» «Allora» riprese «che problemi ti affliggono? Il tuo fidanzato ti ha piantato qua a fumare una sigaretta con uno sconosciuto?» «No» rispose lei accennando un sorriso «non ce l’ho un fidanzato. Ci hai messo poche battute a scoprirlo. Adesso suppongo di avere tutta la tua attenzione» «Mmhh diciamo che hai conquistato un po’ di più della mia attenzione. Ma non mi hai ancora detto che cosa ti porta qui da sola ad intristirti mentre tutti si ubriacano e si divertono»
«Ho litigato con un’amica» confessò lei, ed in quel momento gli parve così fragile che solo con un bacio avrebbe potuto frantumarla in mille pezzi come un bicchiere di cristallo che cade da un tavolo.
«Ed è così grave? È una cosa irreparabile?» «Non è irreparabile ma è molto grave» «Storie di uomini?» «No, storie di studio» «Accidenti… come si fa ad essere così preoccupati per cose di studio?» «Sai, può capitare quando la tua amica decide di abbandonarti nel bel mezzo dell’ultimo progetto prima della laurea» «Ah…progetto, quindi studi qualcosa tipo architettura?» «Sì, qualcosa tipo» «E quindi?» «E quindi siamo totalmente ai ferri corti e non riusciamo a lavorare insieme per concludere questo progetto che dobbiamo consegnare entro tre giorni» «Capisco, ascolta, ti andrebbe di fare due passi e chiacchierarne un po’?» «Non aiuterà a terminare il progetto» rispose lei un po’ seccamente e lui sentì un brivido lungo la schiena: il gioco aveva inizio.
«Mmhhh, e credi che startene qua fuori al freddo a fumare da sola risolverà il problema invece?» «Beh…» disse lei «effettivamente…»
Lui le fece un cenno con la testa per invitarla a seguirlo e si incamminò verso la fine del piazzale, dove la luce si diradava ed avrebbe potuto portarla nell’ombra, forse per l’ultima volta.
«Abiti qui?» le chiese mentre camminavano «Sì, praticamente tutta la settimana, tra lezioni, progettazione e studio. Tu sei di qui?»
Di dov’era Marco? «No, sto fuori per lavoro, vengo qui solo per farmi una camminata qualche volta» «E per rimorchiare» lo punzecchiò lei, con uno sguardo malizioso che gli fece quasi venire un’erezione «No, almeno che qualcuna non colpisca la mia attenzione… il fatto è che questa città è così simile a me…» «Vecchia, vuota e puzzolente?» chiese ridendo «Ti sembro forse vecchio?» «Beh… mi hai detto che lavori… certamente sei più vecchio di me. Almeno che tu non abbia saltato l’università» «Ah ah ah» rise lui un po’ forzatamente «No, l’università mi ha preso in pieno, non ce l’ho fatta ad evitarla.
E di situazioni come quella in cui ti trovi tu ne ho passate a decine, per questo voglio solo farti fare due chiacchiere, perché tanto poi tutto si sistema per cui non vale la pena farsi il sangue amaro» «Ne sei così convinto?» «Ma certo, quando ci sono interessi comuni in gioco il compromesso è sempre più facile da raggiungere e, se l’obiettivo è comune, ci si può odiare da cavarsi gli occhi ma alla fine ognuno penserà al proprio interesse e si piegherà il giusto per raggiungere il suo scopo. Il tuo esame non è a rischio» «Sembri convincente, ti è sempre andata così bene?»
Lui alzò la testa e vide una specie di gargoyle che lo osservava dal cornicione pericolante di un vecchio palazzo. Cosa faceva Marco? «Ho fatto un’università in cui il lavoro di gruppo era all’ordine del giorno, e con esso i suoi conflitti, per cui posso assicurarti che le cose si sistemano» «Cosa hai studiato?» Gli sembrò che il gargoyle gli facesse l’occhiolino. Aveva trovato una storia per la sua maschera del giorno. «Comunicazione, sono un pubblicitario» «Ah beh… scienze delle merendine… e io che sto anche ascoltarti» disse lei tra il serio ed il faceto «dimmi per favore che hai qualche spunto un po’ più autorevole per farmi un po’ di coraggio»
Cazzo, che sfida! Non stava più nella pelle, se fosse riuscito a portarsela a letto probabilmente avrebbe cessato per un po’ la sua sete di gratificazione.
«Veramente non sono solo un pubblicitario, sono il capo di una agenzia di pubblicità. Il mio mestiere consiste nel prendere persone come te e la tua amica che devono produrre qualcosa insieme ed insistere fino a che non riesco a farle lavorare sulla stessa lunghezza d’onda» «Questo è già più rassicurante… la pratica mi ha sempre convinto più della teoria» «Ed io ti ho convinto?» «Beh… è strano ma mi hai rassicurato… ma non illuderti, forse mi stai semplicemente evitando di pensare al problema» «È una buona soluzione anche questa nei momenti in cui la pressione è forte» «Non vorrai farmi credere che stai applicando su di me le tue tecniche da pubblicitario?» disse lei provocandolo.
«Ma no, perché pensi questo? Sto solo cercando di infonderti un po’ della mia fiducia e del mio ottimismo» «Sei sicuro che stai provando a fare solo questo?» «Ehi, questo è scorretto… mi conosci da dieci minuti e già dubiti della mia buona fede?» «Considerato che mi hai praticamente trascinata a fare una camminata con te devo dire che non credo totalmente al tuo aiutarmi in modo così disinteressato» «Beh, ora mi rinfacci pure le cose? Ma vuoi distruggere la mia autostima?» «Io credo che non basterebbe un caterpillar a distruggere la tua autostima, chissà quante altre volte avrai attaccato bottone come hai fatto con me stasera» «Ma ti sembra il modo?» disse lui facendo il finto offeso «ti sembra che io sia uno che ci provi con tutte?» «Magari anche no… ma nel caso mi sembra strano che in una piazza piena di gente tu sia venuto proprio da me»
La loro passeggiata li aveva condotti su e giù tra i ponti, tra vicoli e stradine senza nome e più camminavano più Sabrina si avvicinava ad un bivio esiziale per il suo futuro. «Cosa c’è di strano nel fatto che ti abbia avvicinato?» chiese lui finto innocente, sapendo che l’assalto al castello delle sue difese era iniziato. «Non lo so, di solito queste cose non mi capitano» «Vorrà dire che io e te abbiamo già una prima volta insieme da ricordare: io non ho mai agganciato una ragazza come ho fatto con te stasera»
Sabrina si mise a ridere nervosamente ma quando lui rimase freddo, fermo sulla frase che aveva appena detto, si fece seria e gli disse «Sul serio? Mi stai prendendo in giro? »«Non ti sto prendendo in giro… ti ho vista e, non so…» fece falsamente l’imbarazzato «mi sono sentito che dovevo parlarti. Sei stata come un treno che mi è passato davanti e per la prima volta ho pensato che dovevo prenderlo al volo» «Mmhh… ti concederò il beneficio del dubbio allora» poi, ad un bivio lei lo prese per la mano e lo trascinò verso destra «Di là c’è un canale puzzolentissimo, andiamo per di qua che ormai che siamo in zona mi accompagni a casa» «Accidenti» pensò lui: era convinto che avrebbe avuto più tempo per intessere la sua trama. Così di sicuro non sarebbe riuscito a portarsela a letto.
Camminarono in silenzio per un po’ costeggiando una fondamenta, lui gettava uno sguardo su quell’acqua fredda, scura e stantia, pensando che non ci voleva proprio di essere nei pressi di casa sua. Quante possibilità c’erano che Sabrina chiedesse a Marco di entrare? Arrivati ad un ponticello Sabrina salì le scale più velocemente di lui e lo attese in cima.
Lui non riusciva a riprendere il filo del suo gioco, tutto era stato rovinato da una coincidenza sfortunata. «Io sono arrivata» disse lei »ti saluto qui caro sconosciuto» La faccia di lui era tutto un programma, una maschera di cera. «Beh, non fare quella faccia» disse lei avvicinandosi. P
oi lo prese per il bavero del giaccone e gli si fece sotto oltre la distanza di sicurezza.
«Un bacio della buonanotte tutto sommato te lo sei meritato»
Lui rimase sorpreso quando le labbra fredde di lei si appoggiarono sulle sue. Immediatamente sentì una vampata di calore ed iniziarono a baciarsi in modo così intenso e profondo che quasi gli tremarono le gambe.
Le lingue si incrociavano morbide mentre le labbra si strusciavano delicatamente le une sulle altre. In un istante si abbracciarono e si trovò appoggiato alla balaustra del ponte, con il corpo di lei che premeva sul suo.
Si baciarono quattro, cinque volte, ruotando le teste, cambiando la posizione e affondando il viso l’uno nel collo dell’altro. Si sentiva pieno di sé, quasi realizzato, carico come una dinamo. Era un candelotto di dinamite pronto ad esplodere.
D’un tratto lei gli prese il volto tra entrambe le mani e gli sussurrò parlandogli sulle labbra: «Sai… io abito proprio giù da queste scale» «Sì?» rispose lui attendendo il suo invito ad entrare «A questo punto non mi costerebbe niente chiederti di entrare»
Lui era soddisfatto ed eccitatissimo mentre le labbra di lei sfioravano le sue in quell’intimo sussurrare. «Ma…» fece una brevissima pausa che gli sembrò eterna «il fatto è che non credo ad una parola di tutto quello che hai detto stasera e ti ci vorranno ben più di quattro bugie per portarmi a letto»
Le sue parole lo travolsero come un treno in corsa. Sentì il sangue gelare nelle vene. Le tempie iniziarono a pulsare fino quasi ad esplodere mentre la salivazione si azzerava. Senza parole, sentì come un allarme scattargli in testa come un suono insopportabile che lo fece impazzire. Le orecchie sembrarono volersi chiudere a quel suono che aveva già sentito altre volte. Non era un semplice suono, era un segnale. Un segnale di morte.
Istintivamente infilò la mano nella tasca del giaccone e strinse con tutte le sue forze il manico del coltello. Una lama si fece strada tra le carni, scheggiando le costole ed infilandosi diritta nel cuore. Sentì mancargli il fiato per un istante, poi lo shock e l’incredulità gli annebbiarono per un attimo la mente.
Sentì il sangue caldo colargli nei vestiti mentre tutto il peso di lei era scaraventato sul suo petto. Barcollò un istante poi si sbilanciò e cadde oltre la balaustra del ponte finendo nell’acqua gelida sottostante, con la mano ancora stretta attorno al coltello ed un altro piantato nel cuore.
Sabrina, che in realtà si chiamava Chiara, si guardò un attimo in giro, poi diede un occhio all’ora. Si era fatto tardi, l’indomani aveva lezione di genetica la mattina alle nove. Scese gli scalini che avevano salito insieme e si allontanò nell’ombra per arrivare al treno che l’avrebbe riportata a casa. Camminava tra le calli scure e solitarie animate solo dal rumore dei suoi passi e si chiedeva:
«Esisteranno altre persone come me?»