Filosofia di un pilota spaziale

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Devon Porter guardava passivamente le stelle che scorrevano negli oblò della plancia di comando della “Bismark”. Lui era il terzo pilota, ed era il suo turno alla guida. Ben 36 ore a guardare gli strumenti, poi gli avrebbero dato il cambio e sarebbe tornato a dormire artificialmente nel suo alloggio.

Incurante delle disposizioni di sicurezza, si accese una sigaretta e subito si attivò in automatico un aspiratore di fumo sopra la sua testa.

Era stravaccato sulla poltrona del pilota, e ogni paio di minuti passava dal guardare lo spazio ai monitor che gli stavano davanti, giusto per non addormentarsi.

Ad una velocità tecnicamente immane, ma visivamente ingannevole, Devon vide un piccolo pianeta arancione a poche decine di migliaia di chilometri di distanza, che si andava lentamente avvicinando.

Strano che il navigatore avesse impostato una rotta così vicina ad un oggetto stellare, si sarebbero potute incrociare altre navi.

Interrogò il computer e questi non seppe rispondere, il che era ancora più strano. Alzò gli occhi e il pianeta, che prima si trovava lontanissimo, era proprio di fronte a lui, e copriva l’intero campo visivo.

Provò a disattivare la guida automatica, ma senza riuscirci. Ancora pochi secondi e sarebbe bruciato nell’atmosfera. Si svegliò di soprassalto. Era stato solo un incubo. Gliene capitavano spesso ultimamente, quando era di turno in plancia di comando.

Non che ce ne fosse stato bisogno, del turno. La nave infatti faceva tutto da sola, fino a destinazione. Ma non si potevano discutere le disposizioni di sicurezza, non di quel livello. Non ricordava più se la sigaretta se l’era sognata o meno, e se ne accese un’altra.

Quindi si alzò per stiracchiarsi braccia e gambe, e si diresse alla macchinetta del caffè. «Lungo, senza zucchero… » disse a una scatola grigia, dalla quale venne fuori un ronzio, e poi da uno sportellino un bicchiere di carta con dentro la bevanda bollente.

Si riaccomodò sulla poltrona del pilota e iniziò a sorseggiare il caffè, che però era ancora troppo caldo. Se lo mise sotto il naso e iniziò ad aspirare il vapore, una cosa che lo rilassava parecchio. La vita dello spazio era davvero noiosa.

La maggior parte del tempo si stava seduti su una poltrona a guardar strumenti, poi ti veniva dato il cambio e te ne andavi a dormire per qualche giorno, quindi toccava di nuovo a te.

E così via per settimane, finché non si sbarcava su un pianeta, si consegnava la merce, se ne prendeva altra e via, di nuovo ad appisolarsi di fronte a un computer che non aveva affatto bisogno d’aiuto.

Stava per addormentarsi di nuovo, quando qualcosa iniziò a far rumore. Era una comunicazione in entrata, probabilmente un’altra nave in transito che aveva rilevato la sua posizione. Ed in effetti anche lui aveva qualcosa di non identificato sullo schermo.

Aprì il collegamento e disse, con voce laconica e meccanica:

«Qui Bismark setteunozerobarraduequattroacca… »

«Ehi! Qui Yamato unounoquattrobarraottoseizeta!», rispose una voce squillante dall’altro lato.

«Sembri contento, amico…», replicò ironicamente Devon.

«Cazzo, altroché! Sono due settimane che non incrocio una nave! Mi ero un po’ stancato a parlare da solo!»

Sembrava un pazzo, uno di quei piloti esaltati che iniziano a parlare e non la smettono più. Che ti raccontano tutte le loro avventure – per la maggior parte inventate di sana pianta – e vogliono fare a confronto con le tue. Davvero odiosi, Devon non li sopportava proprio.

Infatti iniziò subito a sparare domande. «Io mi chiamo Charlie! Tu? Dove sei diretto? Io vado a Trofill 2 a scaricare androidi e caricare marmi pregiati!» «Io Devon. Niente, trasportiamo piante da frutta per Georgiant.

Lì sinceramente non so che dobbiamo fare…», rispose seccamente. Poi l’altro pilota lo stupì, cambiando completamente tono.

«Ti sei stancato pure tu di parlare di viaggi quando viaggi, eh?»

«Cosa?», chiese Devon che era rimasto spiazzato, come se gli avessero letto nel cervello.

«Ma, sì! Hai capito! Io inizio con la solita solfa per capire che tipo c’è dall’altro lato. Se è un chiacchierone, pazienza. Tanto si andrà a finire sempre lì, meglio iniziare da subito.

A volte però si beccano i tipi come te. Mi sa che non ti piace molto volare nello spazio, eh!?» Devon inizialmente non sapeva cosa rispondere, si prese qualche secondo per pensare. Poi decise di replicare a sua volta con una domanda.

«Scusa Charlie, ma se ti danno fastidio i chiacchieroni, perché chiami le altre navi?»

«Beh, non so quanti siete ad alternarvi sulla tua nave, ma qui ci sono solo io… e dopo un po’ si soffre la solitudine!»

«Qui a pilotare siamo tre, più altri cinque… ma sei completamente solo?»

«Ho un paio di androidi, ma capirai bene che non possono essere uno di quei modelli avanzati che sanno pilotare una nave!»

«Eh già, costano un po’ troppo…», commentò quasi tra sé e sé Devon, che si sarebbe volentieri fatto fregare il posto da un robot.

Peccato che uno di quelli capaci di saper gestire da soli una nave interplanetaria costavano dieci volte la nave stessa.

«Tecnologia del futuro!», disse Charlie. «Magari tra mille anni le navi le piloteranno solo robot, che ne sappiamo!»

«Mh, già…» Ci fu qualche minuto di silenzio.

Devon guardava il puntino lampeggiante nello schermo tridimensionale. Le rotte della Bismark e della Yamato erano distanti migliaia e migliaia di chilometri, ma in quegli spazi enormi erano ridicole.

Entro qualche minuto il contatto si sarebbe perso e lui sarebbe tornato solo. Decise di sfruttare quegli ultimi momenti per una breve conversazione.

«Charlie?» «Dimmi, amico…» «Perché mi chiami amico?», chiese istintivamente Devon. «Beh, hai scambiato quattro parole con me. Mi hai tenuto compagnia per un po’. E mi sembri un tipo simpatico. Un’amicizia lampo insomma.

Ma chissà, magari una volta o l’altra ci si incrocia di nuovo! Ho registrato la tua nave tra quelle conosciute nel mio computer.» «Capisco…», e ci fu qualche altro attimo di silenzio.

Poi però Devon riprese: «Charlie, sei ancora lì?» «Sì, amico. Orientativamente per altri 3 minuti e spiccioli!» «Non sei stanco di tutto questo?» «Di cosa?» «Di volare!», disse Devon con stizza, come fosse un’ovvietà che l’altro non aveva capito. «Non ti seguo, scusa…», il tono di Charlie era ora intimidito. «No, scusa tu me. Ti spiego, se ti va…» «Sì, certo!»

«Ogni giorno mi passano davanti pianeti nuovi, galassie, nebulose. Viaggiamo a centinaia di chilometri al secondo, ci fermiamo in un posto per qualche ora e via, verso un nuovo spazioporto.» «Mh!» «Eh! Che tempo hai per le relazioni interpersonali? Pochi minuti.

Sia con gli estranei, come fra noi due, che con il resto dell’equipaggio, almeno nel mio caso. Perché lo vedo sveglio solo per qualche ora.» «E quindi?» «Quindi alla fine, quando ti ritrovi a parlare con qualcuno, gli argomenti sono sempre gli stessi.

Il volo, i pianeti che hai visto, gli abbordaggi, le fughe, le puttane che ti sei scopato qui e lì…» A quest’ultima frase a Charlie scappò una risata, ma Devon la ignorò e continuò: «Non fai altro che stare seduto a guardare lo spazio e parlare dello spazio.»

«Sì, in effetti hai ragione. Sembra un mestiere vario e avventuroso, ma non lo è!» «Non so te, Charlie, ma a me avere gli occhi fissi sul nulla, parlare sempre delle stesse cose, ascoltare sempre gli stessi discorsi, vedere sempre le stesse facce, per quanti pianeti tu possa visitare, ora come ora mi provoca solo nausea…»

Ci fu ancora silenzio, e Devon credette per un istante di essere rimasto solo. Si alzò e andò a un oblò per guardare fuori, nell’oscurità totale dello spazio.

Dove le stelle, più che mete da raggiungere, gli sembravano un muro contro il quale prima o poi sarebbe andato a sbattere. Qualche istante dopo però l’altoparlante gracchiò e il suo collega pilota tornò a farsi vivo.

«Amico, sai, non posso che darti ragione. Pure io sono di questa idea, però…» «Tu che ne pensi?», lo interruppe bruscamente Devon. «Non sei stanco di tutto questo? Non sei saturo di questa vita?»

«Beh, io è tanto che viaggio nello spazio. E ho imparato una cosa che ti aiuta a superare questa tua visione. O meglio può servirti a conviverci!» «Cosa?» «Stammi bene a sentire!», disse Charlie con tono solenne.

«Ogni volta che ti siedi sulla tua poltrona e ti vengono di questi pensieri, devi semplicemente *krrrrrrrrrrrrrrr* perché la vita *fzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz* scappa *fshhhhhhhkrrrrrr* posso insegnar… *bipbipbip*»

La trasmissione era caduta, la Yamato si era allontanata troppo e ora era fuori portata. Lampeggiò ancora per qualche secondo nello schermo, al quale Devon era tornato, ma poi sparì anche da lì.

Devon Porter era di nuovo solo, con i suoi pensieri, perso nello spazio profondo, senza il minimo scopo al mondo se non quello di controllare che un computer funzionasse senza intoppi per 36 ore alla volta.

Ne mancavano poco più di 7 alla fine del suo turno. Era certo che su quella poltrona ci sarebbe morto, andando a sbattere contro un pianeta o qualcos’altro, magari dopo essere impazzito o essersi talmente stancato da scegliere lucidamente quella strada.

Non era sicuro che l’insegnamento di Charlie gli sarebbe servito, ma non valeva la pena dispiacersi per questo. Probabilmente non l’avrebbe mai più incrociato per il resto della sua vita, e forse era meglio così.

Ormai era rassegnato alla sua visione della vita, e se avesse dovuto stravolgerla, non avrebbe saputo da dove iniziare. Il suo sfogo? Una debolezza, si disse, chi è che non vorrebbe fare il pilota spaziale?

Ridendo di sé, sicuro che al prossimo turno di guida tutto si sarebbe ripetuto, si accese un’altra sigaretta e tornò a guardare i monitor e lo spazio.

Questo racconto è stato
pubblicato originariamente sul
blog personale dell’autore.

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