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La serata stava procedendo alla grande, alla bettola dei fenomeni da baraccone. Eravamo i soliti: io, Picaciu e, dietro il bancone, Sciccoso. La serata procedeva alla grande perchè mi erano piovuti inaspettatamente dal cielo alcuni iuri per alcuni vecchi diritti d’autore, qualche mia comparsata in un paio di cartoni coreani di serie B diventati improvvisamente di moda che si erano messi a ristampare in cofanetto collezione. Comunque. Eravamo tutti su di giri, perchè avevo deciso di spendermi tutti quei soldi in una colossale sbronza. Sciccoso poi aveva versato un paio di giri extra, che tanto a lui non gliene fregava niente del locale, ne era soltanto l’attrazione, venite e vedrete un vero puffo versarvi da bere e cose così. C’è grossa crisi nel settore, ma penso che se non fosse venuta fuori la sua relazione con Vanitoso, anche lui avrebbe potuto ottenere qualcosa di meglio.
Neanche a Picaciu d’altronde le cose andavano alla grande. Ormai era un pupazzone finito, qualche lavoretto qua e là, soprattutto apparizioni ai centri commerciali, più spesso piccole feste di compleanno, ma anche quelle sempre più raramente. Visto come era ridotto, faceva più paura che tenerezza. Tutte quelle schifezze che aveva preso per mantenere quella vocina che lo aveva reso famoso avevano finito per distruggerlo, e spente le luci della ribalta, aveva finito per lasciarsi andare del tutto, al punto che oramai era un vero e proprio tossico.
La serata stava andando a gonfie vele, dicevo, ma ad un certo punto, non ricordo più bene come, la situazione era degenerata. Penso che Sciccoso avesse ricominciato a prendere in giro Picaciu per il fatto che la roba che prendeva lo aveva reso a tal punto impotente che ormai non avrebbe neanche più fare una scintilla sufficiente ad accendere un fornello. Non era la prima volta, e normalmente Picaciu lasciava correre perchè, se era vero che lui era un botolo giallognolo, Sciccoso, al contrario del luogo comune, in tv sembrava molto più basso, ed era noto che si allenava ancora con Forzuto. Quella sera però il botolo aveva il coraggio dato da tutto il pessimo sakè che si era bevuto, così lo guardò e gli rispose, con il vocione basso da immigrato giapponese che ha quando non recita, che se voleva, i finocchi come Sciccoso li annientava in un colpo. Sciccoso ci rimase, sorpreso, poi si sbrodolò in una risata che faceva più male di un diretto, ingollò quel che restava del suo martini e gli disse, con tono tronfio, che lui con i nani non ci si metteva.
Lo sguardo con cui Picaciù lo squadrò, mi rimane ancora oggi marchiato a fuoco nella mente. Non so se avete presente quelle vecchie stampe giapponesi, dove si vedono quei samurai aprire in due un avversario e nel contempo avere l’espressione assorta di un vecchio filosofo che contempla un tramonto particolarmente toccante. Una cosa del genere. Ci guardò e ci disse semplicemente: Fuori. Non una richiesta e neanche un ordine, sembrava quasi la materializzazione di un nostro pensiero. L’aria si era fermata e noi fluttuammo come in trance verso l’uscita. Il freddo e il buio ci avvolsero. La città era spenta, per la crisi energetica. Lui si limitò a fissare Sciccoso e a fare mezzo sorriso, poi disse: Guarda.
Fu come se un sole fosse nato lì. Non mi ricordo bene tutto, solo la sensazione che ogni mio singolo pelo si rizzasse dolorosamente imbevuto da tutta l’elettricità che mi assediava. Quando i miei pensieri ripresero lucidità e riuscii a mettere a fuoco qualcosa, vidi Picaciu che sorrideva con quella smorfia scema di prima, e dietro tutta l’intera stramaledettissima città completamente illuminata che risplendeva come un’aurora boreale. Il botolo ci fece un mezzo inchino come un karateka che abbia appena fatto volare un tipo tre volte più grosso di lui, e rientrò lasciandoci come due ebeti a fissare increduli le vie che rilucevano.
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