R.I.P. Ian Curtis

Nelle prime ore del 18 maggio 1980, si toglieva la vita impiccandosi Ian Curtis, cantante e frontman dei Joy Division.

Morì suicida a soli 23 anni, il 18 maggio 1980, impiccandosi ad una rastrelliera nella cucina della propria casa situata al numero 77 di Barton Street a Macclesfield. Lasciò la moglie Deborah, dalla quale si era ormai separato, e la figlia Nathalie. Secondo il film biografico Control, di Anton Corbijn, prima di compiere il gesto che mise fine alla sua vita, il cantante guardò il film La ballata di Stroszek di Werner Herzog e ascoltò l’album The Idiot di Iggy Pop. Ian fu cremato e le sue ceneri tumulate a Macclesfield. Sulla lapide è riportato il suo verso più famoso: “Love will tear us apart”.

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Poco prima dell’inizio della prima tournè americana del gruppo e a pochissimi giorni della concomitante pubblicazione da parte della Factory del disco “Closer”, destinato per altro ad un incredibile successo di classifica in Inghilterra.
Questo tragico evento si colloca alla fine di un percorso esistenziale che fin dall’inizio era stato caratterizzato dalla drammatica e totale incapacità da parte di Ian Curtis di porre un qualche tipo di distanza e di autotutela psichica tra sé e la propria musica.
In altre parole nella parabola di Curtis si annulla totalmente la differenza, lo scarto necessario tra personaggio e persona, il personaggio tende ad annullarsi nella persona e viceversa, fino a far coincidere il volto e la maschera in un’identificazione inevitabilmente tragica e irreversibile.
A questo si aggiunge la fragilità tipica di alcuni geniali artisti, che li porta all’autodistruzione psicologica (e nella maggior parte dei casi fisica).

Nonostante la giovane età, aveva vissuto intensamente la sua esistenza, a dispetto dei traumi fisici che comportava la sua condizione di epilettico.
Il modo meccanico e scomposto di danzare che aveva quando stava sul palco, sensibile più di altri all’intermittenza di riflettori e stroboscopi era, per buona parte, conseguenza indiretta delle violentissime crisi che lo affliggevano.
Fu proprio quella danza macabra a diventare prerogativa, insieme al tono di voce cavernoso, dei concerti della divisione.

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La figura di questo cantante ad ogni modo entra a far parte di quella genealogia “maledetta” che attraversa trasversalmente tutta la storia della musica moderna, genealogia composta, tra gli altri, da Robert Johnson, Charlie Parker, Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Billie Holiday, Johnny Cash, Chet Baker, Jaco Pastorious, Syd Barrett, Tim e Jeff Buckley, Nick Drake, Lou Reed, Sid Vicious, Kurt Cobain, Elliott Smith fino a Nick Cave: tutti nomi accomunati dal lacerarsi del labile e fragilissimo confine tra arte e vita, tra musica e verità.

Ian Curtis ha incarnato lo slancio mortale della sua musica con una radicalità e una verità così spietatamente coerenti da morirne, ha osservato a tal punto la bellezza della distruzione da diventarne parte.
Chi oggi ha il coraggio e la follia di lasciarsi uccidere dalla propria musica?

Fonte Wiki

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