El día de los Muertos

Immaginate di camminare per un mercato in festa. I colori vi assalgono insieme al brusio e agli strilli di sottofondo, il profumo degli incensi accesi qua e la, si unisce agli effluvi provenienti dal bancone dei fiori, i bambini corrono in gruppetti a comprare dolci di zucchero e pane dolce.

Tutto intorno a voi i banconi sono decorati con festoni multicolori intagliati a mano con precisione certosina.

Mettete bene a fuoco intorno a voi: gli incensi sono quelli che passano in chiesa nei funerali, i fiori sono dei crisantemi arancioni, i bambini comprano dei piccoli teschi di zucchero con sopra scritti i loro nomi, il pane si chiama “pan de muertos”, sui festoni sono rappresentati teschi e bare… Cosa succede? O siete in un film di Tim Burton, o siete in Messico, dove la settimana precedente al 2 novembre la gente si da da fare per festeggiare nel miglior modo i propri trapassati.

Quando nel XV secolo arrivarono i conquistadores a portare “civiltà e Dio” a quei poveracci di Aztechi (sterminandoli tutti senza preoccuparsi minimamente di “amare il prossimo loro come se stessi”), ovviamente si tentò di estirpare anche quelle barbare tradizioni inutili che quei nani vestiti di piume praticavano.

Ma quello che successe con la festa dei morti fu l’inverso: i cristiani riuscirono a spostare la data dalla fine di Agosto (gli Aztechi festeggiavano i morti il nono mese del loro calendario solare) alla notte del primo di Novembre, ma non riuscirono a trasformarla nella triste e noiosa festa che siamo obbligati a subire ancora oggi qui in Europa (vabè ora va di moda fare tutti i Celti, ma la cosa è recente).

L’arancione è il colore di questa festa: le strade, le case, i cimiteri, sono ricoperti di fiori di Zempasuchil, per le vie vengono fatte delle strade con i loro petali, e tutti i paesini diventano del colore di questi bei fiori.

L’aria che si respira in giro nel “día de los Muertos” è indescrivibile. La gente fa il “velorio” (la veglia) tutta la notte del primo, intorno alla bara, addobbata a festa.

Nelle case si fanno le “Ofrendas”, altari nei quali vengono esposte le foto dei cari estinti, con tanto di cena preparata per loro e lasciata li durante la notte. Le vie vengono riempite di “papel picado”, che poi è carta velina di tutti i colori, lavorata con molta pazienza, a raffigurare immagini macabre ma anche simboli di morte e vita. Le “calaveras” di zucchero con il nome stampato, sono un augurio che si fa ad una persona cara, e una sdrammatizzazione di una cosa che la nostra cultura, invece, ha sempre visto come un evento tristo ed inesorabile (”RICORDATI CHE DEVI MORIIIRE” [cit.]), mentre non è altro che la fine di un percorso naturale.

Gli Aztechi erano abbastanza legati alla morte: praticavano sacrifici umani e belligeravano con i popoli vicini spesso e volentieri; ma hanno acquisito una diversa filosofia di fronte a questo (tra)passaggio. Avevano diversi luoghi dove le anime si sarebbero dirette dopo la morte (non i banali “Inferno” per i cattivi e “Paradiso” per i buoni), divise per la causa della loro morte, ed il viaggio per arrivarvi, durava 4 anni ed era difficile da praticare. I popoli precolombiani ogni anno facevano grandi altari per festeggiare i loro defunti, con riti e usanze arrivate a noi purtroppo solo per iscritto, vestiti sontuosi di piume e grandi danze.

Beh, mi sono dilungato molto, e molto non ho detto, ma la rete è piena zeppa di informazioni a riguardo, se siete interessati:

Pagina wiki.
Una gallery molto bella.
Un video a tema (ma è il primo che mi è apparso su Youtube)

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