Le donne Bunker del Kurdistan

Vorrei inserire questo post nella serie ‘Posti abbandonati’, ma forse sarebbe meglio ‘Posti dimenticati da Dio’ perchè effettivamente abbandonato non è.


Le donne-bunker del Kurdistan: vittime di abusi e clausura
Centinaia di giovani curde vivono sotto la minaccia di un delitto d’onore. L’unica salvezza è rimanere recluse in centri di permanenza, sorvegliate da guardie armate.
Prostrata nella sua poltrona, Noora,19 anni, scandisce a voce bassa: “Per tre anni ho vissuto in rifugi. Se esco, mi uccideranno“. Come centinaia di donne curde, scrive Rue89, la ragazza vive sotto la minaccia di un delitto d’onore. “Mio cugino mi ha violentata a 14 anni. Due anni dopo, la mia famiglia lo ha scoperto e mio fratello ha ucciso mio cugino. Da allora, mio zio mi vuole uccidere per vendicare la sua morte“.

LA VIOLENZA NON E’ UN CLICHE’ - Per Noora, l’unica soluzione per rimanere in vita è quella di non lasciare il centro di Nawa, il rifugio pubblico a Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Dopo nove mesi di carcere e un anno in un rifugio ormai chiuso, Noora rimane reclusa nel centro di permanenza sorvegliato da due guardie armate. La violenza contro le donne curde non è un cliché. Su una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, 499 donne sono morte nel 2009 per impiccagione, per essirsi date fuoco, per aver subito varie forme di violenza o per suicidio. Le cifre ufficiali non separano l’omicidio dal suicidio. “I numeri sono anche sottostimati, dal momento che molti abusi non sono registrati “, ha dichiarato Suzan Aref, a capo della commissione indipendente della Women Empowerment Organization ( WEO), con sede a Erbil.

ANNI DI TRATTATIVE CON LE FAMIGLIE – Fin dalla sua inaugurazione un anno fa, il centro di Nawa non è mai stato vuoto. Dietro le sue porte, i bambini piccoli giocano rumorosi nel giardino. Sedute nella hall e sulle scale, molte donne parlano tranquillamente. Ma in questa grande casa alla periferia di Erbil, pochi sorrisi illuminano i volti. Secondo il governo, nel 2009 sono state accolte 163 donne vittime di violenza: “Matrimonio forzato, accuse di adulterio, divorzio, violenza domestica … ” una lista infinita secondo Bahar Rafiq, psicologo e direttore di Nawa. Anche Sulaymaniah, la seconda città più grande nel Kurdistan iracheno, ha un rifugio pubblico. Nel suo tribunale, un pugno di uomini dalla faccia seria attende pazientemente sotto l’ombra degli alberi. Shawbo Askari, coordinatore dell’Unione delle Donne del Kurdistan, associazione vicina all’ UPK [ il partito al governo in Sulaymaniyah ] ha detto: “Quando una donna arriva al nostro rifugio, iniziamo un dialogo con la famiglia. Alcuni casi facili si risolvono in pochi giorni o settimane. Ma ci vogliono di solito diversi mesi di trattative per farle tornare alle loro famiglie al sicuro“. Queste tattiche laboriose però, a volte falliscono. “Anche dopo un anno di dialogo, a volte la famiglia continua a dichiarare di voler uccidere la donna, accusata di aver macchiato il proprio onore“. Secondo dati ufficiali, il 7 % delle donne ammesse nei rifugi sarebbe in questo pantano. Per loro, l’ attesa nei bunker prende allora un sapore di eternità.

NEL DIMENTICATOIO – Di fronte alle reazioni di violenza senza limiti delle famiglie, nei rifugi è imposto un isolamento estremo per le donne. Maruf Paiwast Aref, un avvocato della ONG ASUD, che gestisce un rifugio a Sulaymaniyah dice: “Per motivi di sicurezza, non è possibile incontrare le donne che accogliamo. La famiglia di una nostra protetta ci ha attaccato con fucili mitragliatori, due anni e mezzo fa. Da allora la donna non ha più visto i suoi tre figli. La sua famiglia crede che lei sia morta“. A Erbil, Noora subisce un trattamento simile: “Per tre anni, sono uscita solo raramente e sempre sotto la protezione della polizia. Non ho mantenuto alcun contatto con le persone che conoscevo prima di entrare nel rifugio. Nessuno viene a farmi visita. Ho smesso di studiare“. Per queste giovani donne cadute nel dimenticatoio, il futuro si è congelato il giorno in cui hanno attraversato la porta del rifugio. “Non ho futuro in Kurdistan, non ho sogni“, mormora la giovane donna. L’ unica distrazione di Noora: la sua professione di custode di notte, che ha tenuto per un anno presso il centro Nawa . Così, anche per il lavoro, lei non può lasciare il centro.

QUANDO IL CARCERE E’ LIBERTA’ - Nel carcere femminile di Erbil, una percentuale significativa di donne condividono questo calvario. Rana, 16 anni, ha lasciato la sua casa per sfuggire a un matrimonio combinato, mentre lei amava un altro ragazzo. In attesa di processo per adulterio, ha tuttavia accolto con sollievo la sua incarcerazione: “Il giudice può autorizzarmi a sposare l’uomo che amo. Ma mio padre mi disse che se io avessi preso questa decisione, mi avrebbe uccisa. Non ho nessuna speranza, io non sono morta , ma mi sento già come seppellita. Sono in prigione da tre mesi, ma almeno qui, sono al sicuro“. Nessuna di loro vede la prigionia come una punizione. Internata per aver avuto rapporti sessuali prima della maggiore età, Abia ribatte: “Qui, ci prendiamo cura di noi. Posso anche continuare i miei studi per corrispondenza“. Questa situazione accogliente, tuttavia, finirà con l’arrivo del verdetto e quelle che non potranno essere liberate perché minacciate di morte verranno inviate in un rifugio. Di fronte a questa situazione di stallo, l’unica speranza per queste donne è ottenere un visto all’estero. Tutte hanno presentato regolare domanda nelle ambasciate europee. “Dal 2000, tre donne sono stati inviate in Europa“, dice Paiwast Maruf Aref, avvocato della ASUD. Una pratica che il governo nega di conoscere.

TERRA DI NESSUNO - Per aiutare le donne-bunker l’unica soluzione sembra essere quella proposta dal governo. Negli ultimi dodici mesi, la direzione del Ministero degli Interni responsabile per le violenze contro le donne ha preparato un inventario per la loro normalizzazione, come spiega il presidente Ari Rafiq: “La ONG americana Heartland sta progettando un modello di sicurezza, che verrà poi applicato ai tre rifugi pubblici esistenti in Kurdistan“. Per Rafiq Bahr, direttore del centro di Nawa è un’emergenza. Ha detto che i dipendenti del centro, ricevono minacce tutti i giorni. A volte, alcune famiglie vagano intorno al rifugio. La mancanza di prospettive future in questa “terra di nessuno”, dà fastidio a Suzan Aref, direttore del WEO: “Migliorare la sicurezza è fondamentale. Ma una volta all’interno del rifugio, non si fa nulla per spingere queste donne a emanciparsi. Le soluzioni esistono, però: sarebbe possibile per esempio, offrire loro lavoro in fabbriche tessili sotto protezione della polizia. Ciò contribuirebbe a farle sentire vive e re-immetterle in una comunità“.

UN CONTESTO IPERVIOLENTO E CORROTTO - Un dipendente di un rifugio riconosce gli ulteriori progressi da fare: “Non c’è una libreria, niente tv. Le analfabete possono imparare a leggere e scrivere, ma non esiste nessuna altra attività regolare in programma“. Al centro Nawa, Bahar Rafiq apprezza moderatamente i rimproveri: “Con quali mezzi potremmo fare miglioramenti? Non abbiamo abbastanza soldi a nostra disposizione“. Ma Suzan Aref, afferma che seppure i finanziamenti siano esigui, non costituiscono l’ unico problema. Esiste anche una mancanza di formazione del personale di gestione: “I dipendenti non sono in grado di interagire efficacemente con le famiglie. Essi forniscono solo soluzioni temporanee. Per consentire ad una donna ripudiata dalla sua famiglia di lasciare il rifugio, ci sono stati staff che hanno deciso di trovarle un marito. Non sorprende che la donna sia tornata a nascondersi qualche settimana dopo … “.In questo contesto iperviolento, un cambiamento di atteggiamento è urgente. Nel corso degli ultimi dieci anni, il governo curdo è più interessato ai diritti delle donne. Nel 2002 e nel 2008, la normativa è stata modificata. Maruf Paiwast Aref, avvocato della ONG ASUD, dettaglia: “Per sposare una seconda moglie, l’uomo deve ora avere il consenso della prima moglie. Inoltre, in un divorzio, il padre non ha più tutti i diritti sui figli”. Recentemente, il governo ha diffuso anche bollettini di informazione in televisione e in radio per spiegare alle donne i loro diritti. Per Suzan Aref, tuttavia non basta: “In pratica, è sufficiente che il marito paghi sottobanco per far sì che la denuncia presentata dalla moglie scompaia dal dossier del giudice”. Secondo il direttore della ONG, non c’è dubbio che la legge della tradizione prevarrà sempre sulla legislazione del governo: “L’educazione dei curdi deve essere cambiata fin dalla tenera età, soprattutto quella dei ragazzi.Non possiamo cambiare la nostra società senza parlare agli uomini“.

Giornalettissimo.it

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