Inferno: l’enigma è nella mente di Robert Langdon

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Ron Howard e Tom Hanks tornano ad adattare per il grande schermo un romanzo di Dan Brown: tra virus letali e l’Inferno dantesco, questa volta Robert Langdon ha il compito di salvare l’umanità. Dal 13 ottobre al cinema.

Una ferita d’arma da fuoco alla testa, memoria annebbiata e uno strano puntatore in tasca: il razionale e compassato Robert Langdon si ritrova per la prima volta in uno stato di totale confusione mentale, senza indizi a cui appigliarsi.

Risvegliatosi in una stanza d’ospedale a Firenze, il professore può contare soltanto sull’aiuto di Sienna Brooks (Felicity Jones), brillante medico che gli salva la vita. Il puntatore, che nasconde al suo interno una mappa dell’Inferno immaginato da Dante Alighieri, è molto più di quello che sembra: la mappa è un primo indizio per scoprire la posizione di un virus letale, chiamato Inferno, creato dal miliardario Bertrand Zobrist (Ben Foster), che vuole decimare metà della popolazione mondiale per salvare la Terra dal sovrappopolamento.

 

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In fuga tra Firenze, Venezia e Istanbul, Langdon non solo è costretto a una corsa contro il tempo per evitare che il virus si diffonda, ma deve anche guardarsi le spalle, visto che si trova al vertice di un vortice d’interessi di più forze, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una setta misteriosa e dei mercenari che vogliono impossessarsi del virus per venderlo.

 

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Al terzo film tratto da un libro di Dan Brown, dopo Il Codice Da Vinci (2006) e Angeli e Demoni (2009), Ron Howard decide di liberarsi, in parte, dall’influenza del romanzo di partenza per scatenare sullo schermo la sua fantasia e giocare con i generi: la parte iniziale di Inferno, in cui Langdon deve scavare nei suoi ricordi per orientarsi, mescola sapientemente atmosfere thriller a visioni oniriche che pescano a piene mani nell’horror, con richiami pittorici ai quadri di Hieronymus Bosch.

Tom Hanks, sempre carismatico, è questa volta un Robert Langdon più umano e per questo più empatico: confuso, disorientato, insicuro per la prima volta, il professore sembra cercare anche l’aiuto del pubblico, in una corsa contro il tempo in cui mette sul piatto della bilancia la sua intera esistenza, fatta di studio e riconoscimenti accademici ma non d’amore, quell’amore che anche Dante ha tanto sospirato ma non ha mai concretizzato.

 

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Proprio Dante e Firenze sono uno dei punti di forza del film: il fascino della città italiana è assoluto, ritratta di giorno come un monumento alla bellezza, mentre di notte è vista come luogo infernale, complice anche la magnifica fotografia di Salvatore Totino e la musica imponente di Hans Zimmer.

 

 

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Se l’Italia fa una bella figura, non si può però dire lo stesso degli italiani: stereotipati e ridotti a macchiette, veniamo sbeffeggiati per le nostre abitudini sessuali (l’allusione a nipoti che non sono tali non può non far pensare a celebri casi di cronaca nostrana), per le forze dell’ordine sprovvedute e per i tifosi di calcio, che diventano immediatamente dei diavoli nelle visioni di Langdon.

Nonostante gli sberleffi all’italica gente, la produzione non ha badato a spese nell’organizzare un’anteprima mondiale faraonica, durata tre giorni, proprio a Firenze, con spettacoli di luci sul fiume Arno e una conferenza stampa allestita nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, che ha un ruolo centrale nel film.

 

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Se quindi la regia di Ron Howard è più matura, Tom Hanks e Felicity Jones sono dei protagonisti carismatici, così come i comprimari Omar Sy e Irrfan Khan, il punto debole del film resta ancora una volta il materiale di partenza: Dan Brown è un autore furbo, che ha capito che il grande pubblico, soprattutto quello che mette raramente piede in una libreria, ama gli enigmi, gli indovinelli, le opere d’arte e il fascino delle città europee, non necessariamente inseriti in una storia solida, per questo lo scrittore non si cura di costruire un racconto perfettamente bilanciato, nonostante questa volta lo spunto di partenza sia interessante, ma mette insieme un’accozzaglia di luoghi comuni e citazioni estemporanee, per cui è facile stupirsi solo se non si è mai studiato latino al liceo (ne è l’emblema la spiegazione dell’origine della parola “quarantena”).

 

 

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Se quindi da una parte Ron Howard gioca con le immagini e le citazioni (bella la scena in cui il personaggio di Omar Sy, con gli occhi iniettati di sangue e intento a guidare una barca per i canali di Venezia, sembra Caronte in persona), dall’altro lato la storia vacilla, soprattutto quando ci si sposta dai personaggi, pedine in perenne dubbio tra fede e scienza, ragione e sentimento, a una lunga serie di indovinelli ed enigmi che a lungo andare appassionano meno.

Nonostante questi difetti, che sono poi gli stessi dei capitoli precedenti, Inferno è sicuramente il miglior film della trilogia tratta dai romanzi di Dan Brown, perché punta l’obbiettivo e le domande nella mente e nel cuore dei personaggi. Chissà però se, come diceva Quelo, la risposta è sbagliata.
Inferno è nei cinema italiani dal 13 ottobre.

 

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