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Il Progetto Corona

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Immaginate di passeggiare tranquilli per il deserto dell’Arizona, come ogni sabato mattina. La sabbia, i serpenti, qualche messicano morto di sete mentre cercava di attraversare il confine. Le solite cose che si trovano di norma nei deserti americani.

All’improvviso però inciampate in qualcosa. Vi rialzate sbattendo la sabbia dai vestiti. Ai vostri piedi c’è una croce.

Una croce maltese di cemento. Larga quasi venti metri.

“Che mizzica è sta roba?” vi chiedete guardandovi intorno.

E allora ne vedreste un’altra, un’altra e un’altra ancora.

“Sono finito nel cimitero dei giganteschi cavalieri de La Valletta?”, vi domandate anche se siete quasi certi sia la risposta corretta.

Ma in quel momento qualcuno vi sta osservando, voi non lo vedete, ma lui vede voi, in realtà non sta guardando voi, sta guardando le gigantesche croci di cemento.

Perché quelle croci, sono li per lui.

E oggi narreremo di questa storia, di queste croci e di come la fotografia sia un hobby serio, quando ci devi evitarci una guerra nucleare.

 

 

Quando gli aerei volavano bassi

È il 1958 e la DARPA riceve un nuovo, emozionante, incarico: s’ha da spiare i russi! Sai che novità, risponde la DARPA un po’ scazzata, che è tipo dal 1945 che non si fa altro.

Ma si mette all’opera.

Il piano è semplice, i russi sono avanti nella corsa allo spazio, ma gli americani non è che siano così indietro, qualcosa l’hanno imparato anche loro, tipo mettere in aria dei satelliti e farli girare intorno alla Terra.

Quindi perché non approfittarne per scattare qualche foto o fare qualche filmatino? Il progetto riceve poche attenzioni inizialmente, il grosso della sorveglianza è affidato ai buoni vecchi aerei ma, nel 1960, accade il disastro.

Nello stesso anno in cui la DARPA riceve il suo nuovo incarico infatti, gli Stati Uniti stanno facendo un regalo ai pakistani, che al tempo non erano ancora dell’Isis, dei golosi U2.
Il piano è parcheggiarli in Pakistan e poi mandarli a sbirciare i siti di lancio sovietici che stanno giusto li dietro.

 

Fun Fact: gli americani erano preoccupati di volare con gli U2 sopra la Russia, perché usare piloti americani su territorio sovietico poteva essere un casus belli per iniziare a tirarsi missili balistici in testa.

Quindi chiesero agli inglesi di prestargli dei piloti, gli inglesi avevano appena fatto una figura barbina a Suez e quindi calarono velocemente le braghe fornendo dei piloti. Caso mai fossero stati scoperti immagino che gli USA si sarebbero giustificati dicendo che gli inglesi gli avevano rubato l’aereo per fare una marachella. Va da se che per la legge di Murphy quando accadde l’incidente c’era invece a bordo un pilota americano.

 

Gli americani però sono confidenti, i primi voli sono stati si intercettati dai russi, ma ne i missili ne i MIG sovietici hanno potuto fare molto, gli U2 sono semplicemente troppo avanti.

Anzi, i russi spesso sapevano che gli americani avrebbero tentato un volo, ma non riuscivano in nessun modo a intercettare gli aerei spia. Fino al 1° maggio 1960, quando una batteria di missili SA-2 riuscì ad agganciare un’aereo spia e buttarlo giù.

Quello che successe dopo è storia, ma a noi non interessa (se però a qualcuno interessa è qui), questo fatto però mise pressione alla Darpa: gli aerei non sono sufficienti! Bisogna volare più in alto!

 

 

 

Il Progetto Corona

Ci sarebbe da chiedersi perché dare il nome di una birra a un programma militare.
Ma noi non chiediamocelo. Gli americani iniziano a pompare milioni nel progetto di ricognizione satellitare e, man mano che i tetti di spesa saltavano come tappi di birra, gli ingegneri sfornavano risultati.

Per prima cosa bisognava costruire delle macchine fotografiche potenti, molto potenti.
Le prime erano lunghe 1,5 metri ma, con i vari improvement del programma, si arrivò a fotocamere da 2,7 metri.

 

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Le ottiche prodotte dalla Itek Corporation erano a tripla lente, del diametro di 18 cm ciascuna.

Le lenti si muovevano in continuazione lungo un arco di 70° in quanto la risoluzione maggiore era ottenuta al centro dell’immagine, quindi per avere una buona visione di tutta l’area era necessario scattare molteplici foto. Inoltre le lenti erano in continua rotazione per contrastare l’effetto di sfocatura dovuto al fatto che i satelliti si muovevano ad alta velocità intorno alla Terra.

I primi satelliti montavano una sola fotocamera, ma quasi subito ne venne aggiunta un’altra: le due fotocamere inclinate di 15° una avanti e una indietro permettevano di ottenere immagini stereoscopiche.

 

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L’ultima generazione di fotocamere, le J-3 erano montate all’interno di un cilindro che si muoveva eliminando la necessità di muovere le lenti della fotocamera e lasciando così spazio all’aggiunta di alcuni filtri e esposizioni differenti.

 

La definizione subì un rapido incremento, passando dall’identificazione di oggetti da 12 metri di diametro a oggetti di 3 metri di diametro fino ad arrivare a oggetti di 90cm di diametro.

 

La prima generazione di satelliti trasportava 2,4 km di pellicola, la quinta e ultima generazione, ne portava 9,8 km.

Una volta fatte le fotocamere serviva la pellicola. Si iniziarono a studiare nuove pellicole, estremamente più sottili, le prime erano di 7,6 micron ma il loro spessore venne man mano ridotto.

Al contrario delle normali pellicole in acetato si iniziò a usare pellicole in poliestere che risultavano più resistenti alle proibitive condizioni orbitali. Pellicole più resistenti e più sottili erano una necessità, in quanto lo spazio sui satelliti era limitato e, ovviamente, nessuno poteva andare a cambiare la pellicola quando finiva.

La prima generazione di satelliti trasportava 2,4 km di pellicola, la quinta e ultima generazione, ne portava 9,8 km.

Per quanto si fecero tentativi di fotografie a infrarosso e a colori, risultava che il bianco e il nero fosse molto più definito rispetto alle controparti e quindi si procedette in quella direzione.

 

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Procedura di recupero delle pellicole dai satelliti Corona.

 

Infine qualcuno doveva portare le foto a sviluppare. I satelliti erano dotati di capsule di rientro che venivano caricate di pellicola e lanciate verso la terra.

Le capsule erano dotate di scudi termici per proteggersi dal surriscaldamento dovuto all’attrito con l’atmosfera ed erano progettate per aprire un paracadute a 18 km dalla superficie.

 

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Vista la natura altamente segreta del programma le capsule erano recuperate in aria da aerei preposti allo scopo, oppure recuperate dalla US Navy se finivano in acqua.

Nel caso nessuno le recuperasse i filmati si autodistruggevano in un paio di giorni.

 

Fun Fact: nel 1964 una capsula finì in Venezuela dove venne trovata da un agricoltore, la storia arrivò ai giornali e il Pentagono decise di de-secretare l’esistenza delle capsule e offrire una ricompensa a chiunque ne trovasse una e la portasse all’ambasciata americana più vicina.

 

 

 

 

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Le croci nel deserto

Ma torniamo ai nostri pantaloni sporchi di sabbia e al cimitero dei giganti. Uno dei problemi maggiori per i satelliti era capire come allinearsi per scattare le foto.

I satelliti dovevano avere un sistema per sapere quando le fotocamere erano correttamente a fuoco e puntate verso la Terra… che le foto delle stelle sono romantiche, ma quelle dei siti di lancio degli ICBM lo sono ancora di più.

 

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IMG 4634In prima battuta vennero montate delle fotocamere ausiliarie che scattavano foto alle stelle, un sistema di sensori montati all’interno del satellite controllavano le foto e riconoscevano alcune stelle standard usate come marker e in base alla loro posizione allineavano il satellite alla Terra.

Ma il sistema era macchinoso e non esente da problemi. Di conseguenza si pensò di costruire un qualcosa che i satelliti potessero riconoscere e usare per settare correttamente gli strumenti.

L’idea migliore fu creare un reticolato che venne costruito nel deserto dell’Arizona ed era composto da 272 enormi croci di cemento disposte a formare una griglia di circa 660 km quadrati che i satelliti potevano facilmente puntare e riconoscere per calibrarsi per le foto successive.

 

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Foto del Pentagono scattata da un satellite Corona, 25 Settembre 1967.

 

 

 

 

La Fine

Il progetto rimase completamente segreto mentre i Russi si vantavano con il mondo per il loro Korabi – Sputnik 2 (una specie di arca di Noè con sopra 2 cani, 40 topi, 2 ratti e alcune piante), primo oggetto progettato per uscire e rientrare dall’atmosfera, gli ingegneri americani si mordevano la lingua perché nove giorni prima avevano recuperato loro il primo oggetto progettato per uscire e rientrare nell’atmosfera, ossia una capsula di pellicola lanciata dal Discover 13.

 

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Mentre i russi si vantavano di avere satelliti con una fotocamera nello spazio gli americani avevano satelliti con computer a bordo che decidevano in autonomia quando scattare le fotografie valutando le condizioni atmosferiche, gli obiettivi designati, lo stato del satellite e le immagini già scattate nella zona.

Ma non lo dissero mai.

Al suo massimo splendore il progetto Corona aveva in cielo 144 satelliti di cui 102 funzionanti, ognuno di loro passava a calibrarsi sopra l’Arizona, usando l’enorme reticolato costruito per loro nel deserto.

L’ultimo satellite Corona venne lanciato nel 1972, il progetto venne quindi chiuso e sostituito con il progetto Hexagon KH-9, una nuova generazione di satelliti capaci di scattare, sviluppare, scannerizzare e trasmettere a terra le foto tramite telemetria.

 

“A Point in Time: The Corona Story”, un documentario creato dalla CIA e dalla NRO nel 1995 per commemorare la desecretazione del progetto Corona:

 

 

Conclusioni

Nel 1992 il progetto Corona venne de-secretato, nel 1995 e nel 2002 vennero rese pubbliche la versione a bassa definizione delle foto scattate dai satelliti.

Le foto vennero utilizzate da due team di scienziati (uno australiano e uno americano) per identificare la presenza di antiche città, luoghi di sepoltura e megaliti in Siria, e per ricostruire le rotte commerciali nella Mesopotamia preistorica (che il medio oriente gli americani lo fotografavano spesso già allora).

 

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Veterani del progetto Corona davanti alla sede della CIA nel 1995.

 

Le croci vennero pian piano smantellate ma si stima ce ne siano ancora circa 145 nel deserto dell’Arizona. Se ne stanno li, nella sabbia, a guardare il cielo.

Ma i nuovi satelliti oggi le ignorano, per loro non sono altro che un elemento dell’ambiente, le fotografano e le mettono su google maps (tipo qui) insieme alle piscine sui tetti e le piazze dalla forma strana.

 

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Ma a loro non importa, hanno aiutato il mondo a mantenere la pace e poi gli storici a scoprire i resti di antiche civiltà e adesso possono continuare a guardare il cielo pieno di satelliti.

Ed è per questo che, stasera, stapperò una Corona in loro onore. Cheers!

 

 

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