Ghost In The Shell: uno shell perfetto, ma senza il suo ghost

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Il live-action di Ghost In The Shell, franchise nato dal maestro giapponese Masamune Shirow, arriva finalmente al cinema. La trasposizione di Rupert Sanders, con protagonista Scarlett Johansson, sarà riuscita a riunire in sé i fan dell’anime e manga e la spettacolarità dell’immagine?

Tra i film più aspettati, ma anche criticati, di questo 2017 troviamo sicuramente Ghost In The Shell, il primissimo live-action dell’omonimo franchise giapponese, creato nel 1989 da Masamune Shirow.

Ghost In The Shell è molto più che un semplice marchio. Mi sbilancio e dico che Ghost In The Shell è una religione. Parliamo di un universo creato con alla base delle tematiche profonde, con il quale una generazione intera è cresciuta, passando dal manga agli anime, arrivando ai videogiochi e film.

Motoko è divenuto uno dei simboli cult della cultura pop, così come Ghost In The Shell è un manifesto di fantascienza, cyberpunk, confronti tra etica e robotica che, col passare degli anni, sono diventati sempre più complessi.

Quello di Ghost In The Shell è un labirinto di luci, visioni, ma anche di solitudine. Dialoghi, monologhi estremamente profondi che si basano su riflessioni che vanno tra il dualismo corpo e mente, uomo e macchina, materiale e immateriale.

 

 

Ghost In The Shell

 

Masamune omaggia nella sua opera un grande filosofo come Gilbert Ryle, a sua volta ripreso da altri mostri sacri della fantascienza, e frantuma il suo discorso rendendolo più accattivante, passando dall’avvenenza di un corpo al dissidio che la stessa protagonista in primis prova.

Lo stesso titolo racchiude in sé il significato dell’opera del mangaka.

Lo stesso titolo, tanto voluto da Masamune Shirow, racchiude in sé il significato dell’opera del mangaka. Lo Shell è l’involucro, il corpo cibernetico all’interno del quale conservare la propria memoria, così come il Ghost è essenzialmente l’anima, la parte più umana.

Parliamo di un essere capace di provare tutto e non provare niente. Un essere che può fare tutto e che ha delle prestazioni incredibili, ma al tempo stesso può conservare un infinita conoscenza del mondo e di ciò che lo circonda.

Non sono solo ingranaggi, fili, sistemi operativi, elementi croncreti, ma anche un qualcosa di incosistente, ma assolutamente fondamentale come la mente, l’anima, apputo il ghost.

E l’opera del mangaka è stata ed è proprio questo: un corpo unito a una mente, nella sua estrema complessità.

Ghost In The Shell
Ghost In The Shell è più che una semplice storia, e proprio per questo quella di Rupert Sanders è stata una scelta molto azzardata e pericolosa.

Le possibilità che Ghost In The Shell potesse diventare un fallimento totale, erano alte.

Eppure Sanders ce la fa ed esattamente come la dottoressa Ouelet – nel film interpretata da Juliette Binoche – concentra tutto se stesso nella costruzione di uno shell perfetto.

Ghost In The Shell si presenta, così come avevamo già costato nei primissimi minuti in anteprima visti qualche settimana fa, come un grandissimo film di fantascienza, dalle potenzialità visive spettacolari e suggestive.

La dimensione in cui ci immergiamo è ricca di suoni, di luci, colori. Sfumature contrastanti ma sempre fluide e armoniose. Ghost In The Shell è un acquario all’interno del quale lo spettatore galleggia, trascinato dagli eventi della narrazione.

C’è un grande lavoro di ottima qualità negli effetti visivi, molto differenti dal solito e che affondano le radici in una tecnologia ben più sviluppata di quella che siamo abituati a vedere generalmente al cinema.

 

Ghost In The Shell

 

L’inizio e fine del film riescono a mozzare il fiato.

L’inizio e fine del film riescono a mozzare il fiato. Una fusione del colore con la musica che rende tutto intangibile e affascinante. Immagini che riprendono fedelmente la creazione di Motoko nel film del ’95, potenziandole ulteriormente.

Sanders costruisce il suo film quasi come un’esperienza videoludica in realtà aumentata, e se questo è sicuramente il cavallo di battaglia del film, allo stesso tempo è anche il suo difetto più grande.

Questa ossessiva cura nei dettagli del film da una parte attrae lasciando stregati e d’altra parte la pellicola perde gran parte della sua magia se non è vista in una sala adeguata.

Si, perché Ghost In The Shell è un grande film di intrattenimento, destinato però a vivere e morire unicamente nella sala cinematografica (attrezzata). Usciti dalla sala si ha la sensazione di aver visto qualcosa di incredibilmente spettacolare, con degli interpreti preparati e molto concentrati, ma privo di anima.

Non c’è quella sensazione di disagio, di ricerca e continua domande sugli interrogativi lanciati nel film, sulle riflessioni importanti che vanno in orizzontale nella struttura drammatica della pellicola. Tutto questo semplicemente perché non viene trattato, se non accennato in brevissimi punti.

 

 

Ghost In The Shell

 

 

Rupert Sanders costruisce un ottimo Shell, ma dimenticata la cosa più importante che differenzia un cyborg da un robot, il suo Ghost.

Rupert Sanders crea un buon film di fantascienza, con una buona dose di azione e violenza, e anche qualche svolta importante e sorprendente, ma dimentica totalmente il senso del soggetto da cui sta traendo ispirazione.

Non è il cambiamento del nome a far la differenza, perché lì Sanders si è mostrato sapiente, dando una sua interpretazione al passato del Maggiore e spiegando le molte cose non chiare all’appassionato, appunto come il nome o l’etnia della protagonista, in modo logico e coerente.

Le intuizioni si colgono, le ispirazioni anche.

Le intuizioni si colgono, le ispirazioni anche, eppure Ghost In The Shell insieme alla sensazione di magnificenza visiva, trascina con sé la consapevolezza di star vedendo qualcosa di molto diverso dall’opera di Shirow.

Poco e nulla viene davvero lasciato intatto della trama originale. La storia, sebbene non particolarmente innovativa, funziona. Interessante è come sul grande schermo si è deciso di sviluppare Maggiore, e anche il suo tipo di reazione nell’ossessione sulla propria identità.

Un personaggio che non ha del tutto consapevolezza del suo corpo. Apperentemente cinico, freddo, robotico, e che si mostra nella sua nudità considerandosi unicamente, in un primo momento, una macchina. Solo con lo sviluppo del film si assiste a un totale cambiamento di Maggiore.

 

Ghost In The Shell

 

I turbamenti vanno ben oltre il sentirsi umano o meno nel corpo di un robot. Stralci di un passato sconosciuto, la sensazione di perenna solitudine, la fragilità nel non sapere a cosa o chi credere.

E in tutto questo Scarlett Johansson è incredibile.

E in tutto questo Scarlett Johansson è incredibile, a partire dal lavoro sul corpo a quello sulla voce. Gli sguardi, le movenze, ogni precisa azione dell’attrice è riassumibile in un pura concentrazione, realizzando un personaggio dalle sfumature interessati.

Interessantissimo il lavoro stesso di Michael Pitt, interprete di Kuze, e lo stile melodrammatico, quasi ricreando una sorta di Creatura di Frankenstein, da un lato terrificante e dall’altro affascinante. Eppure qui è ancora più palese come il lavoro di Sanders sia andato più a concentrarsi nel ricreare l’incredibile corpo cibernetico del personaggio, piuttosto che approfondire come Kuze sia realmente apparso nella storia originale, cosa si nasconde nella sua ideologia, perché dovrebbe essere definito Puppet Master.

Nell’involucro proposto da Sanders c’è tutto: effetti visivi, interazione, violenza, complessità, ma non c’è concretezza. Le tematiche, gli affascinanti approfondimenti dell’opera di Masamune Shirow vengono messi in sordina, sacricante per un’opera di solo valore estetico.

 

 

Ghost In The Shell

 

 

Dialoghi insignificanti, banali e che non conducono i personaggi da nessuna parte.

Dialoghi insignificanti, banali e che non conducono i personaggi da nessuna parte. Parole supericiali e che non rendono assolutamente l’idea dei monologhi al quale, invece, è abituato il fan.

L’atmosfera ricrea i magnifici viaggi visionari, dove attentissimo è lo studio del suono e della musica, dei cult della fantascienza, pensando in primis a Blade Runner. C’è un maggior senso di omogeneità, quasi a voler neutralizzazione il fattore etnia, ma rendere città e volti più universali.

C’è tanto della cultura videoludica, degli ultimi giochi di genere e del tipo di effetti visivi. Sicuramente quella di Sanders poteva essere una scelta prevedibile. La speranza è sempre l’ultima a morire, ma un solo film non basta davvero per spiegare l’ampio respiro di Ghost In The Shell, e in questo caso non si è nemmeno provato a fare questo tipo di operazione.

 

Ghost In The Shell

 

Ghost In The Shell non è Ghost In The Shell. Un film diverso, oggettivamente bello e che affascina, facendo il suo lavoro, ma che non vuole essere assolutamente un prodotto per i fan, se non per qualche richiamo lontano.

Un film godibile per chi è totalmente a digiuno e ben poco sa della storia del franchise; decisamente qualcosa di più doloroso e che diventa mero involucro privo di anima, per i fan.

Una pellicola controversa e che troverà gli spettatori, inevitabilmente, spaccati a metà. Una prova di quanto ancora più in là possa spingersi il cinema, andando incontro a un coinvolgimento visivo mai visto prima, ma anche di quanto l’immagine – in questo nuovo cinema di intrattenimento – possa essere molto più importante delle storie.

 

Ghost In The Shell sarà al cinema dal 30 Marzo.

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