Emilia (para)Noica

Emilia provava fastidio.

Simile ad un prurito che le percorreva la schiena e non riusciva a scacciare.

Fastidio per quel modo di storcere il naso e rispondere “mhmh” alle sue domande quando evidentemente non la stava ascoltando.

Fastidio per quei pantaloni stinti che indossava da giorni. Perché non li metteva a lavare?

Fastidio perché dopo mesi, macché anni!, ancora non aveva idea di dove andasse lo zucchero. Ci voleva tanto?

Sbuffava scocciata ripensando al senso di libertà pura dei mesi prima.. ma si ritrovava a sorridere, ricordandosi felice e spensierata con la percezione di se stessa e la pace con il mondo esterno che ora l’aveva abbandonata.

Con la tazza di tè si avvicinò alle enormi vetrate che davano sulla strada, guardando malinconica fuori dalle finestre sporche, appannate e senza tende.

Nuvole.

Imponenti e minacciose la fissavano implacabili senza dar segno di andarsene.

“Io le odio le nuvole”.

Coprivano la luce e dipingevano tutto di pennellate grigie e cupe, danzando con il freddo rigido che le era entrato nelle ossa rendendola simile alle temperature esterne.

Non mancava molto alla primavera, ma il freddo non pareva desistere.

Sbuffò di nuovo.

“Io lo odio questo posto”.

Per quanto l’abitazione fosse calda e piena di “cose” era ben lontana dal definirsi “casa”.

Mobili Ikea scelti senza stile e trattati senza cura. Colori senza attinenza, tazze spaiate, nessuna pianta e nemmeno una libreria!

Ad una prima occhiata poteva sembrare un arredamento minimalista: un divano a due posti in pelle nera, una lampada anonima, un grande schermo collegato alla Play Station, un tavolino rigato, anch’esso nero, nel mezzo della sala con qualche vecchio giornale e un posacenere pieno.

Emilia era ormai andata oltre alla visione minimale delle cose e notava l’intonaco sul soffitto che stava cedendo, il vecchio poster di Pulp Fiction sbiadito, i vetri pieni di ditate, la polvere sottile sopra ogni cosa.. Ed il pensiero finiva ai soldi dell’affitto che buttava via ogni mese per quel buco, sforzandosi inutilmente di renderlo più accogliente. Lo stile le andava bene all’inizio, ma ora..

Un senso di vuoto le prese lo stomaco.

“Non ho nessun posto da chiamare casa”.

Atos pienamente a suo agio sul divano stava ridacchiando mentre leggeva uno dei suoi fumetti idioti in una posizione senza senso.

Emilia lo fissava accigliata col fastidio che le cresceva dentro, ma lui era troppo concentrato per notare la sua presenza.

Quella pace, quella sintonia con il mondo e con il qui e ora di Atos proprio non riusciva a comprenderli. Soprattutto non lì e non in quel momento.

Ma c’erano tante cose che non si spiegava.

Le signore che si ritoccano le sopracciglia con matite scure senza punta.

I ciccioni che si lamentano del caldo.

I paesi senza raccolta differenziata.

Le brontolava lo stomaco. Le piaceva pensare fossero i succhi gastrici che risucchiavano i suoi sogni infranti, che dal cuore erano scesi nello stomaco, per quello aveva sempre mal di pancia.

Atos ridacchiò di nuovo dietro le pagine.

Seccata si ricordò che Atos aveva una consegna di ricerca l’indomani.

“Probabilmente l’ha già finita, tra una canna e l’altra..”

Aveva sempre studiato con facilità, da quando lei lo conosceva, e le aveva sempre dato sui nervi.

Gettò rumorosamente la tazza sbeccata ormai vuota nel lavandino, si diede una sistemata e decise di uscire a prendere una boccata d’aria e fare un giro in bici.

Non lo comunicò ad Atos, la maggior parte delle volte che usciva e tornava lui nemmeno se ne accorgeva.

Nell’imprecare contro il lucchetto che non voleva slegarsi dal palo davanti a casa venne interrotta da una voce che la fece sussultare.

“Bisogno d’aiuto?!”

Un volto sicuro di sé la fissava interrogativo.

“A-amir??!” il nome le uscì automaticamente, mentre incredula guardava il ragazzo egiziano in piedi di fronte a lei incontrato la sera prima, che le sorrideva sventolando animatamente la mano per salutarla.

‘Che cazzo ci fa qui?’

Ecco che tornava il fastidio: un’invasione del suo territorio, proprio ora che cercava di evadere.

“Ti ho accompagnata a casa ieri, ricordi? L’hai lasciata nella mia macchina e ho pensato di riportartela” le stava spiegando porgendole la sciarpa.

‘Ecco dove cazzo era finita!’.

“Mhmh grazie” grugnì strappandogliela dalle mani.

E poco a poco riaffiorarono i ricordi di pari passo al rossore sulle sue guance.

L’ennesimo litigio con Atos, le birre di troppo, lei che era uscita con i mezzi e aveva perso l’ultima coincidenza, lui che dopo tutta la sera di flirt si era proposto di riportarla a casa e lei che si era arresa non avendo abbastanza soldi dietro per pagarsi un taxi.

“Sì beh tanto ero di strada, te l’ho detto no che abito qui vicino..” iniziò un principio di dialogo che lei ignorò perdendosi a scrutarlo e a decidere se le piaceva o meno.

Aveva dei bei denti, bianchi, ordinati in un sorriso spontaneo e la pelle un po’ scura che sembrava piuttosto elastica.

I capelli ricci erano tagliati corti, nerissimi, così lucidi che le ricordavano lo smalto nero sulle sue unghie da adolescente dark.

Era alto, Emilia immaginava che sotto quella giacca non potessero esserci che muscoli ben definiti.

Silenzio. Doveva averle chiesto qualcosa che lei non aveva ascoltato.

Aggrottò la fronte con la testa inclinata di lato.

“Emilia? Che fai allora? Non mi inviti per un caffè?” le propose ammiccandole.

‘Mi sta facendo l’occhiolino?!’

Il vuoto per un istante e poi..

Sbam! Lo aveva baciato la sera prima.

‘Che idiota!’, guardandolo bene ora non le sembrava nemmeno così interessante, una persona qualunque, tutta colpa di quella pelle olivastra che le piaceva tanto.

“Io stavo uscendo veramente..”

“Su dai un caffè al volo e uso il bagno!”

Non tanto l’insistenza quanto quel sorriso perfetto la fece cedere e rientrò in casa solo allora ricordandosi del suo ragazzo.

‘Merda!’

Sbucarono in sala, dove Atos era ancora immobile con l’espressione da ebete a leggere e ridacchiare da solo.

“Atos, lui è..” iniziò titubante Emilia, senza sapere bene cosa dire.

“Non ci posso credere, Amir!” Atos era scattato in piedi e tra loro erano già pacche sulla spalla, scossoni e risate incredule.

“Facevamo il biennio insieme Emi! Non ci vediamo da secoli!! Come lo conosci??”

‘Gli ho ficcato la lingua in gola ieri sera qui sotto casa’

“Mi ha portato a casa ieri quando ho perso l’ultimo..” ma che glielo spiegava a fare? Non la stava nemmeno più ascoltando, erano già sul divano a parlare di fumetti e a pianificare un’imminente partita alla Play.

“Oh grande Amir!!”

Si sorridevano complici, con lei che non riusciva a capacitarsi della leggerezza di Amir nel sedersi sul divano a ridere col suo presunto ragazzo.

‘Che faccia da culo’

“Oh, ce la facciamo una partita?”

‘Ma io cosa ci faccio qui?’ Era l’ennesima volta che se lo chiedeva in un solo giorno. Aveva passato la mattinata a pulire casa e a passargli davanti al divano senza essere degnata di uno sguardo, e ora Atos era la persona più attiva e gioviale del mondo.

“Oh Emi, lo fai un caffè? O un tè, vedi tu..” le stava chiedendo Atos mentre chiudeva una canna e la passava ad Amir.

Emilia si morse il labbro borbottando.

“Faccio un caffè” tanto voleva berlo anche lei.

“Se se..” le risposero noncuranti all’unisono.

Coi pugni serrati si diresse in cucina a fissare la macchina del caffè.

Voleva urlare. Prendere i piatti e buttarli per terra.

Poi però avrebbe dovuto ripulire tutto lei.

Fece un respiro profondo, bevve un bicchiere d’acqua e cercò il caffè.

Prese la moka tentando di svitarla ma Atos la chiudeva sempre troppo forte.

Si mise a sbraitare dalla cucina: “Qualcuno può darmi una..”

Inutile.

Tornata in sala era come invisibile. Erano già nel bel mezzo di una partita con il volume al massimo e lei non esisteva più.

“Atos la moka cazzo! La chiudi sempre troppo..”

“La moka?”

“Sì fattone di merda, il caffè!”

“Ah già! Beh fa niente, ho chiamato il fattorino delle pizze e tra mezz’ora arriva.. Ah ne volevi una anche tu magari?”

Con gli occhi sbarrati non rispose neanche, uscì sbattendo la porta combattendo contro l’impulso di fargli del male, spaccare tutto, urlare o anche solo piangere, mostrandosi debole.

Di nuovo in cucina bevve un altro sorso d’acqua, cercando di calmarsi.

‘Ora basta’.

Il fastidio era oltre il limite, lo sentiva sempre più forte il prurito.

Il suo sguardo incrociò l’anta del frigorifero dove tra le migliaia di volantini e disegni appiccicati trovò la cartolina di Londra.

Le si dilatarono le pupille e distolse lo sguardo.

Incapace di resistere strappò l’immagine dal magnete e rilesse le frasi criptiche scritte dalla sua amica.

L’invito era ancora aperto.

Allungò l’orecchio verso la sala sentendo solo urla di esaltati e annunci trionfanti dallo schermo.

Un altro sorso.

Fece un respiro profondo e si decise.

Prese lo smartphone mordendosi il labbro per non urlare la sua frustrazione e si mise a cercare nella posta in arrivo.

“Trovata”

Digitando freneticamente sulla tastiera in inglese scrisse quella mail che aspettava da troppo, senza pensarci a lungo, come un fiume in piena le parole le uscivano dalle dita.

“Buongiorno sono Emilia Noica, vi contatto in merito alla posizione di..”

Mano a mano che scriveva il cuore aumentava i battiti e la sua bocca si allargava in un sorriso compiaciuto.

“Sono assolutamente interessata e disponibile a trasferirmi da subito”.

Il dito si spostò automaticamente sul simbolo dell’aeroplano di carta in alto a destra, premendo leggermente.

Trattenne il fiato mentre i suoi occhi si spostarono da una parte all’altra dello schermo leggendo “il messaggio è stato inviato”.

Abbozzò un sorriso, le gambe cedettero e lei svenne silenziosa sul tappetino della cucina.

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