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La Sindone di Torino: reliquia autentica o falso medievale?

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La Sindone di Torino è senza dubbio la più famosa reliquia al mondo, venerata da milioni di fedeli nel corso dei secoli ed è stata per questo oggetto di innumerevoli studi nei più diversi campi scientifici, tanto che è probabilmente il singolo oggetto più studiato al mondo. Ma si tratta di una reliquia autentica?

Secondo la tradizione sarebbe il telo in cui fu avvolto Gesù dopo la crocifissione, prima di essere deposto nel Santo Sepolcro.

Ovviamente il fatto di essere stato a contatto con il corpo di Cristo e averne perfino assorbito il sangue ne farebbe la più preziosa delle reliquie per la Cristianità, anche se una consistente parte dei cristiani (la Chiesa protestante) ritiene l’adorazione delle reliquie una pratica più vicina al “paganesimo” che non alla religione cristiana.

La posizione ufficiale della Chiesa cattolica nei confronti di questa reliquia è mutata molto nel corso dei secoli.

Inizialmente, nel XIV secolo l’ha dichiarata un falso, per poi autorizzarne la venerazione come telo sacro all’inizio del XVI secolo con papa Giulio II e giungere infine all’attuale posizione ufficiale che è di neutralità sulla sua autenticità, anche se due recenti papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno espresso il proprio convincimento personale che sia autentica.

 

 

 

Storia della Sindone

 

Cominciamo col dire che non esiste alcuna testimonianza storica della Sindone di Torino antecedente al XIV secolo, periodo nel quale esisteva un florido e proficuo commercio di reliquie religiose a volte vere, ma nella stragrande maggioranza dei casi false, tanto che ad esempio con i pezzi di “vero legno della croce” venduti in giro per l’Europa si potrebbe forse costruire uno chalet.

Il possedere una preziosa reliquia garantiva infatti a qualsiasi chiesa prestigio e protezione, oltre che ovviamente un grande afflusso di donazioni dai fedeli. La prima testimonianza storica documentata risale al 20 giugno 1353, quando il cavaliere Geoffroy de Charny la dona alla chiesa di Santa Maria di Lirey, in Francia, che lui stesso ha fatto costruire.

Goffredo dichiara che questo è il sacro telo in cui è stato avvolto Gesù Cristo dopo la crocifissione, ma non dice nulla sul dove o come se lo sia procurato.

Il possedere una preziosa reliquia garantiva a qualsiasi chiesa prestigio e protezione, oltre che ovviamente un grande afflusso di donazioni dai fedeli.

La prima ostensione (esposizione in pubblico) risale al 1355 o 1357. L’ostensione richiama una grande folla di fedeli, con relativa abbondanza di donazioni alla chiesa di Lirey ed attira per questo l’attenzione del vescovo di Troyes, Enrie de Poitiers che decide di ordinare un’indagine su di essa (qui non posso fare a meno d’immaginarmi l’incaricato dal vescovo con il volto di Sean Connery).

L’indagine si conclude apparentemente con la confessione del falsario che l’ha prodotta, ovviamente per quel che vale una confessione nel XIV secolo, anche se non si conosce l’identità di questo falsario, né il metodo da lui usato. La Sindone viene indicata come artificiosamente dipinta, ma qui è necessario fare un’importante precisazione, infatti a quel tempo con “depingere” si indicava genericamente una qualche tecnica di riproduzione e non necessariamente un dipinto.

Sappiamo di quest’indagine dalla lettera che il successore di Poitiers, Pierre d’Arcis, invia all’antipapa Clemente VII nel 1389 in cui protesta per una nuova ostensione di quella che egli ritiene un falso proprio sulla base della precedente indagine.

A quel punto Goffredo II, figlio di Goffredo di Charny e che aveva organizzato l’ostensione, manda un lettera anch’egli al papa in cui afferma invece l’autenticità del telo. Clemente VII sceglie allora la via del compromesso e pur emettendo in successione ben 4 bolle papali, in cui afferma (invano) che la Sindone è un falso, ne autorizza l’ostensione ai fedeli, a patto che:

Si dica ad alta voce che la suddetta raffigurazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola (pictura seu tabulafatta a imitazione del Sudario.

Chiedendo allo stesso tempo a Pierre d’Arcis di cessare ogni ulteriore polemica. Ovviamente la polemica del vescovo Pierre d’Arcis e del suo predecessore, potrebbe anche essere stata dettata più che da una sincera preoccupazione per l’autenticità della reliquia da una mera questione economica, cioè l’aumento esponenziale delle donazioni alla chiesa di Lirey a scapito di quella di Troyes.

Nel 1415 Umberto de la Roche, marito di Margherita di Charny figlia di Goffredo II, prende in consegna la Sindone con la scusa di proteggerla durante la guerra tra Borgogna e Francia. Passata l’emergenza Margherita di Charny decide di tenersi il telo, ovviamente con relativa denuncia dei religiosi di Lirey. La contesa si protrae per anni, intanto Margherita organizza varie ostensioni in giro per la Francia, ma durante quella di Chimay in Belgio, il vescovo locale gli intima di mostrare le bolle di Clemente VII che ne certificano la non autenticità.

L’ostensione viene interrotta, ma Margherita continua a tenersi la Sindone fino al 1453, quando la vende ai duchi di Savoia. Pochi anni dopo Margherita verrà poi scomunicata dal papa per il suo comportamento.

Nella notte fra il 3 e 4 dicembre 1532 la Sindone rischia di rimanere distrutta dall’incendio che colpisce la cappella in cui era custodita a Chambèry e riporta gravi danni.

I Savoia portano allora il telo nella loro capitale Chambèry e nel 1506 ottengono da papa Giulio II l’autorizzazione al suo culto pubblico. Nella notte fra il 3 e 4 dicembre 1532 la Sindone rischia di rimanere distrutta dall’incendio che colpisce la cappella in cui era custodita a Chambèry.

Viene tratta in salvo, ma riporta gravi danni, infatti era conservata ripiegata in un contenitore d’argento che per l’elevato calore fonde parzialmente e gocce del metallo fuso ne bruciano gli angoli lasciando ampi buchi di forma triangolare nel telo. I buchi saranno poi riparati dalle suore clarisse di Chambèry con delle toppe e un telo di rinforzo cucito dietro all’originale (la tela d’Olanda).

Quando il ducato di Savoia entra in guerra nel 1535, la Sindone viene portata via da Chambèry dove tornerà solo 25 anni dopo. Nel 1578 il duca Emanuele Filiberto porta la Sindone a Torino, nuova capitale dei Savoia, dove verrà poi collocata oltre cento anni dopo nella Cappella della Sacra Sindone da cui verrà portata via per un breve periodo nel 1706, quando i francesi assediano Torino.

Da allora, negli ultimi 3 secoli il telo si allontana da Torino un’unica altra volta durante il suo ultimo viaggio, quando prima dello scoppiare della Seconda guerra mondiale, nel 1939, viene nascosta nell’abbazia di Montevergine in Campania fino al 1946.

 

 

 

L’immagine di Edessa

 

La storia della Sindone di Torino è dunque ben documentata solo a partire dalla metà del XIV secolo, ma alcuni studiosi che ancora oggi sostengono la sua autenticità ne hanno ipotizzato la precedente storia, facendo in particolare riferimento all’immagine di Edessa.

 

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L’immagine di Edessa o Mandylion, in greco “panno, fazzoletto”, era un piccolo panno venerato dalle comunità cristiane orientali, almeno a partire dal VI secolo, su cui compariva l’immagine del volto di Cristo e a cui veniva attribuita origine acheropita, cioè soprannaturale.

Era inizialmente conservato ad Edessa, l’attuale Urfa in Turchia, dove rimase fino al X secolo quando fu portata a Costantinopoli. Se ne persero definitivamente le tracce nel 1204, quando i crociati saccheggiarono la città durante la Quarta Crociata. Secondo la leggenda, nel I secolo il re Abgar di Edessa che era gravemente malato, venuto a sapere di Gesù e dei suoi miracoli gli inviò una lettera chiedendogli di curarlo. Gesù rispose scrivendogli che una volta asceso al cielo gli avrebbe inviato un discepolo per guarirlo.

220px-abgarwithimageofedessa10thcentury Questo discepolo sarebbe stato Taddeo, ma in questa prima versione della leggenda non si parlava di immagini sacre, solo successivamente si parlò dell’origine del Mandylion, che a seconda delle versioni sarebbe stata un dipinto fatto da un inviato del re Abgar o un’immagine impressa da Gesù stesso su un panno asciugandovisi il viso.

La Chiesa ha sempre rifiutato questa leggenda in quanto Gesù non avrebbe mai lasciato alcunché di scritto. Chi sostiene che questa era la Sindone di Torino, ritiene che a quel tempo essa fosse ripiegata più volte in modo da mostrare solo il volto in essa impresso.

Va però sottolineato che questa ricostruzione è veramente poco plausibile e che il Mandylion è stato sempre descritto come un piccolo panno che mostrava il volto di Gesù e mai come qualcosa che ne mostrasse anche il corpo.

 

 

 

 

Il tessuto

 

Una prima importante analisi della Sindone si può fare studiando la struttura del telo. La Sindone di Torino è una grande telo di lino lungo più di 4 metri e largo poco più d’un metro, con una trama a spina di pesce con un rapporto ordito/trama 3:1 e una filatura a Z.

 

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Una cosa poco nota è che si ha un telo funerario risalente al I secolo e trovato a Gerusalemme: la sindone funeraria di Akeldama. Fu scoperta a Gerusalemme est da Shimon Gibson e James Tabor ed è stata datata grazie al metodo del carbonio 14 (dal laboratorio di Tucson, lo stesso della Sindone) al periodo 50 a.C.-70 d.C., cioè l’epoca di Gesù.

La tela funeraria di Akeldama, risalente al I secolo, presenta sostanziali differenze dalla Sindone di Torino.

Non è in perfette condizioni, come ci si può aspettare da un telo vecchio di 2000 anni e presenta sostanziali differenze dalla Sindone di Torino. Non è di lino, ma lana, la trama è più semplice e la filatura è a S. Oltre a questo va anche sottolineato che il defunto era avvolto strettamente nel telo, con le braccia lungo i fianchi ed altri bendaggi stretti intorno a collo, polsi e caviglie. Esiste invece un altro telo di lino, conservato al Victoria and Albert Museum a Londra, che ha struttura identica a quella della Sindone di Torino e che risale al XIV secolo.

 

 

 

 

Piccoli particolari

Ci sono alcune osservazioni che si possono fare anche senza analizzare direttamente il telo, ma semplicemente osservandone l’immagine. Ad esempio le mani appaiono sopra il pube quasi a volerlo coprire per una questione di pudore, che ovviamente non avrebbe alcun senso in un defunto avvolto in un telo e deposto in un sepolcro, ma soprattutto ad essere sospetta è la loro posizione, che appare innaturale.

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È infatti facilmente verificabile che per mantenere le mani in quella posizione sul pube con il corpo disteso orizzontalmente è necessario che i muscoli siano in tensione, altrimenti la mani tendono a scivolare.

La posizione non potrebbe essere giustificata nemmeno dall’irrigidimento cadaverico, ma solo dalla presenza di legacci di cui però non c’è traccia. Si può poi osservare la ferita del chiodo sui piedi.

In base ai ritrovamenti archeologici, in particolare allo scheletro di un uomo crocifisso a Gerusalemme, l’uomo di Giv’at HaMivtar, la ferita dovrebbe essere diversa, i piedi infatti venivano posti lateralmente rispetto al palo verticale della croce e fissati con due grossi chiodi (larghi circa 1 cm) che trapassavano i calcagni e si piantavano nel legno (non riesco neanche ad immaginare il dolore…).

copy_of_copy_of_footL’immagine del viso è poi particolarmente sospetta, in quanto appare più come una proiezione che un’impronta di un vero volto, la quale dovrebbe invece risultare completamente deformata ai lati secondo quello che viene definito “effetto maschera di Agamennone”.

Anche le macchie di sangue appaiono veramente troppo definite, quando invece dovrebbero apparire come macchie informi sul telo e i segni della flagellazione sembrano troppo simmetrici.

Tra il fronte e retro della testa dovrebbe poi esserci uno spazio maggiore, i capelli hanno un aspetto quasi “vaporoso”, mentre dovrebbero essere impastati dal sangue (anche se alcuni ipotizzano che il corpo sia stato lavato) e braccia e testa appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo.

 

 

 

 

Macchie di sangue?

 

Le prime analisi dirette sulla Sindone di Torino furono autorizzate dalla Chiesa nel 1973 e poi nel 1978. In entrambi i casi furono prelevati dei fili e nel 1978 furono anche applicate delle strisce adesive per asportare residui dal telo. Il telo fu anche analizzato con tecniche di spettroscopia UV-visibile, infrarossa e spettrofotometria XRF (X-ray fluorescence spectroscopy).

 

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Le analisi volevano innanzitutto verificare se sul telo era presente vero sangue umano. I risultati furono contrastanti, la commissione scientifica che studiò i fili prelevati nel 1978 dichiarò che i risultati sulla presenza di tracce ematiche erano negativi, ma che non potevano escludere definitivamente la presenza di sangue.

Nel 1980 Walter McCrone, consulente dello STURP, rilevò tracce di coloranti sui campioni prelevati dalla Sindone.

Già in queste prime analisi furono comunque rilevate tracce di coloranti, osservazione poi confermata dal consulente dello STURP (Shroud of Turin Research Project) Walter McCrone, che nel 1980 dichiarò di aver rilevato la presenza di  residui di ocra rossa, cinabro e alizarina, in pratica tempera rossa.

McCrone fu espulso dallo STURP in seguito a questi risultati ed altri due consulenti, Heller ed Adler, giunsero a risultati diametralmente opposti dichiarando di aver rilevato la presenza di emoglobina, bilirubina e albumina e che le tracce rilevate da McCrone (rilevate anche da loro) erano dovute probabilmente a contaminazioni. Lo STURP concluse che le macchie erano costituite da sangue umano e nel 1982 il medico legale Baima Bollone, Jorio e Massaro dichiararono di essere riusciti persino ad individuare il gruppo sanguigno: AB.

Va però sottolineato che i risultati ottenuti dal sindonologo Baima Bollone furono aspramente criticati da molti altri esperti. Egli rilevò la presenza di ossido di ferro che non è necessariamente un residuo di emoglobina, ma può anche essere semplicemente un residuo di ocra rossa ed oltre al ferro fu rilevata anche la presenza di calcio, ma non di potassio come ci si aspetterebbe nel caso di residui di sangue…

Il telo della Sindone subì innumerevoli contaminazioni nel corso dei secoli.

In ogni caso le contaminazioni subite dalla Sindone nel corso di innumerevoli ostensioni nel corso dei secoli rendono molto complicato distinguere le tracce originali dalle contaminazioni. Un esempio emblematico è quello dei pollini rinvenuti sui campioni, identificati apparentemente come provenienti da varie parti del mondo, un risultato questo inconcludente proprio per l’elevato numero di pellegrini che è entrato in contatto con la Sindone nei secoli scorsi. Oltretutto in molteplici occasioni furono effettuate delle copie da artisti, che mettevano la propria copia a contatto con l’originale in modo tale da renderla a sua volta “una reliquia di terza classe”. Un’ultima considerazione si può fare sul colore delle macchie di sangue che dovrebbe essere molto più scuro, tendente al nero per macchie di sangue secco e così antico, fosse anche risalente al Medioevo.

 

 

 

 

Esame del carbonio 14

 

La datazione con il metodo del carbonio 14, misurando la quantità relativa di questo isotopo radioattivo del carbonio (14C), consente di datare reperti di origine organica, non più vecchi di 50000 anni, con un buon livello di precisione e fu perciò naturale pensare di utilizzarlo per datare il telo di lino della Sindone.

 

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Il 21 aprile 1988 furono prelevati 3 campioni di tessuto, 3 strisce della misura di circa 7×1 cm, inviate poi sigillate insieme a campioni di controllo a 3 differenti laboratori nel mondo, presso le università di Oxford e Tucson e l’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo. I 3 laboratori furono selezionati tra quelli inizialmente proposti per la loro esperienza nel datare reperti archeologici.

I risultati dei 3 laboratori datarono il telo della Sindone di Torino nell’intervallo di tempo 1262-1384 d.C. con un livello di confidenza del 95%.

Questo dato è ovviamente compatibile con la prima testimonianza storica della Sindone (1353-1355) ed avrebbe perciò dovuto mettere la parola fine sulla questione della sua autenticità ed invece è stato detto e ipotizzato di tutto per metterlo in discussione.

Si va dalle ipotesi più inverosimili di un complotto, a quelle di errori nel prelievo o contaminazioni di vario tipo. In realtà il prelievo fu fatto in una zona del telo dove non erano presenti rammendi, ben pulita rispetto alla gran parte dei reperti archeologici che vengono di solito datati con questa tecnica e nessuna contaminazione, biologica o dovuta a fattori esterni come l’incendio che la colpì nel XVI secolo, può aver falsato la misurazione di 1300 anni.

Nessuna contaminazione a cui è stato sottoposto il telo può aver falsato il risultato della datazione di 1300 anni.

Ovviamente ogni sistema di misura prevede un margine d’errore, non esiste la precisione assoluta, ma tutti gli studi che proponevano meccanismi secondo cui il risultato della datazione al radiocarbonio sarebbe stato falsato dall’incendio che colpì la Sindone, si sono dimostrati inconsistenti se non vere e proprie frodi.

Anche la presenza di una patina organica sui campioni prelevati è stata seccamente smentita dagli esperti che hanno analizzato direttamente i campioni, che erano invece relativamente molto puliti.

Senza entrare nel merito di ogni contestazione fatta a questa analisi, riguardo alla sua correttezza giova ricordare che al prelievo dei campioni erano presenti:

  • prof. Renato Dardozzi, membro della Pontificia Accademia delle Scienze
  • prof. Franco Testore, titolare della cattedra di Tecnologie Tessili al Politecnico di Torino
  • prof. Giovanni Riggi di Numana (microanalista che effettuò materialmente il taglio)
  • dott. Gabriel Vial, direttore del Museo dei Tessuti Antichi di Lione
  • prof. Robert Hedges e Edward Hall, responsabili del Laboratorio di Radiodatazione dell’Università di Oxford
  • dott. Michael Tite, Direttore del Laboratorio di Ricerca del British Museum di Londra
  • prof. P. Damon e D. Donahue dei dipartimenti di Geoscienze e Fisica dell’Università dell’Arizona
  • prof. W. Woelfli del dipartimento di Fisica del Politecnico di Zurigo
  • prof. Luigi Gonella, il rappresentante dell’Accademia Pontificia delle Scienze
  • cardinale Luigi Ballestrero con 4 sacerdoti
  • fotografi e cineoperatore (tutta l’operazione fu filmata e fotografata)

Nel 2002 fu eseguita l’ultima opera di restauro del telo, con una rimozione delle parti bruciate e delle toppe applicate dalle suore in seguito all’incendio del XVI secolo e la sostituzione della “tela d’Olanda”, il telo di supporto posteriore.

La Sindone è stata inoltre stirata e ripulita dalla polvere. Il restauro è stato eseguito dalla dottoressa svizzera Mechthild Flury-Lemberg, che è forse la maggiore autorità mondiale nel tessuto antico.

La dottoressa, pur avendo criticato la procedura eseguita nel 1988 ed essendo convinta personalmente dell’autenticità della Sindone, ha ovviamente esaminato il telo con molta attenzione (fronte e retro) e dettaglio importante, non ha visto alcun segno che faccia pensare che il prelievo del 1988 è stato fatto da una parte rammendata.

 

 

 

 

Come si è formata l’immagine?

 

Da quando nel 1898 Secondo Pia, fotografando il telo scoprì per caso che l’immagine si presenta come se fosse un negativo fotografico (con i chiaroscuri invertiti), sono state fatte innumerevoli ipotesi sul meccanismo di formazione dell’impronta dell’uomo della Sindone.

 

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Le più inverosimili sono quelle che ipotizzano la formazione dell’immagine per irraggiamento, ad esempio attraverso un intenso lampo di radiazione ultravioletta o effetto corona. Ragionevolmente questi processi non avrebbero potuto verificarsi né nel XIV, né tanto meno nel I secolo. Le spiegazioni che chiamano in causa fulmini globulari o ambienti fortemente radioattivi, sono infatti a dir poco improbabili.

L’uso di una rudimentale tecnica fotografica, sebbene nel Medioevo si conoscesse già la camera oscura, è veramente poco plausibile.

Altra spiegazione veramente poco plausibile è quella dell’uso di una rudimentale tecnica fotografica. Nel Medioevo era già nota la camera oscura, ma sarebbe stato necessario impregnare il telo di sostanze fotosensibili (di cui non c’è traccia), usare lenti, fonti d’illuminazione costanti ed uniformi e tempi d’esposizione lunghissimi…

Una variante però più verosimile di quest’ultima ipotesi fu proposta, almeno per il viso da N. Wilson. Fece dipingere il volto della Sindone su un vetro con tempera bianca, che poi lasciò su un telo di lino per diversi giorni esposto alla luce del Sole. Ottenne un’immagine in negativo simile all’originale.

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All’inizio del XX secolo Paul Vignon, dopo tentativi infruttuosi di riprodurre l’immagine tramite prima gesso spalmato su un viso e poi tramite uno stampo di zinco, propose un metodo naturale con cui l’immagine si sarebbe formata: una reazione chimica tra il tessuto di lino, la mirra e l’aloe applicate sul corpo di un defunto nell’antichità e i vapori di ammoniaca generati dalla decomposizione.

In seguito R. Rogers ha ipotizzato che l’ingiallimento del lino sarebbe stato provocato dalla reazione di Maillard tra ammine prodotte dalla decomposizione e le impurità (polisaccaridi) presenti sul telo in seguito al suo lavaggio con Saponaria officinalis, ma questo meccanismo non produce un’immagine definita come quella della Sindone e soprattutto l’immagine risulta notevolmente deformata.

Certamente non è una semplice pittura eseguita con pennello, ma interessanti ipotesi sono state fatte su come un artista medievale avrebbe potuto riprodurre l’immagine.

Certamente non è una semplice pittura eseguita con pennello, ma interessanti ipotesi sono state fatte su come un artista medievale avrebbe potuto riprodurre l’immagine. Fu ipotizzato ad esempio che sia stato usato un bassorilievo metallico riscaldato a 200 °C, che messo a contatto col telo l’avrebbe “strinato” producendo l’immagine, mentre il sangue sarebbe stato aggiunto in seguito. Dall’analisi del tessuto si vede però che al di sotto delle macchie di presunto sangue non c’è immagine e che l’effetto sulle fibre di lino sarebbe stato differente.

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Un risultato migliore è stato ottenuto da Luigi Garlaschelli membro del CICAP, che migliorando una tecnica utilizzata per primo da J. Nickell, ha strofinato con un tampone impregnato da ocra rossa e una soluzione diluita di acido solforico un telo steso sul corpo di un volontario.

Per evitare l’effetto maschera di Agamennone sul volto, ha invece usato un bassorilievo di gesso al di sotto del telo. Le tracce di sangue e i segni di flagellazione sono stati aggiunti alla fine con tempera. Secondo Garlaschelli il pigmento di ocra rossa si sarebbe distaccato nel corso dei secoli lasciando l’immagine che ora vediamo.

Ciò spiegherebbe anche le tracce di pigmento rilevate sul telo, che secondo gli “autenticisti” sarebbero però contaminazioni dovute alle tante copie fatte per contatto nel corso dei secoli da artisti.

 

 

 

 

Vero o falso?

Tutte le prove fino ad oggi raccolte, dall’analisi delle testimonianze storiche del telo all’esame del carbonio 14 sui campioni prelevati, concordano nel collocare l’origine della Sindone di Torino in epoca medievale. Non c’è alcuna testimonianza storica del telo antecedente al XIV secolo e nemmeno i Vangeli parlano di una Sacra Sindone.

Tutte le prove scientifiche fino ad oggi raccolte concordano nel collocare l’origine della Sindone di Torino in epoca medievale.

All’epoca di Gesù gli oggetti che entravano in contatto col defunto venivano considerati impuri dagli ebrei e non veniva data importanza alle reliquie, perciò sembra improbabile, ma ovviamente non impossibile, che i primi cristiani abbiano conservato il telo funerario di Cristo per venerarlo.

Oltretutto l’immagine dell’uomo della Sindone appare più come una raffigurazione artistica, che non quella che ci si aspetterebbe da un uomo crocefisso a Gerusalemme nel I secolo e presenta una lunga serie di incongruenze veramente difficili da giustificare. Va poi sottolineato che per dimostrare l’autenticità della reliquia non basterebbe comunque dimostrare che risale al I secolo.

Sarebbe necessario dimostrare anche che ha avvolto il corpo di un uomo crocefisso a Gerusalemme e che questo non è un uomo qualunque, ma Gesù di Nazareth. Dimostrare tutto questo è in ogni caso quasi impossibile, anche perché non si hanno informazioni sull’aspetto fisico di Gesù. San Paolo scrisse che era indecoroso per un cristiano portare barba e capelli lunghi…

L’autenticità di una reliquia non è comunque una questione di fede, ma se la si vuole verificare va indagata con metodo scientifico.

Il cardinale Ballestrero commentando i risultati dell’esame del carbonio 14 disse:

Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore…

 

 

 

 

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