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Anche i cani vanno in paradiso?

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«Avete sbagliato cane!» urla furioso Charlie alla versione a quattro zampe di San Pietro che lo accoglie alle porte del paradiso canino. Nel film d’animazione Charlie – Anche i cani vanno in paradiso non ci sono dubbi, gli animali hanno un’anima che gli garantisce l’accesso alla vita ultraterrena dopo la morte.

Anche l’attuale Pontefice, Papa Francesco I, ha recentemente dichiarato che passati a miglior vita potremmo godere della compagnia delle nostre amate bestiole.

Anche l’attuale Pontefice, Papa Francesco I, ha recentemente dichiarato che passati a miglior vita potremmo godere della compagnia delle nostre amate bestiole.

La questione sull’anima degli animali, di sicuro marginale nel dibattito contemporaneo, ha attraversato nel passato almeno due importanti fasi teologico-filosofiche.

La prima si ha con la figura di Aristotele (384 – 322 a.C circa) e la sua dottrina dell’anima; tale visione permarrà incontrastata, o quasi, in tutto il percorso escatologico dei padri della chiesa in età medievale. La seconda svolta riguarda la teoria delle due sostanze di Renee Descartes (1595-1650 d.C.)

Per il filosofo dell’antica Grecia l’anima sarebbe composta da tre parti (o funzioni): l’anima vegetativa, quella sensitiva e quella razionale. Tutti gli esseri viventi, comprese le piante hanno la parte vegetativa, soltanto gli animali hanno quella sensitiva, mentre la razionalità è propria soltanto degli esseri umani.

Il quadro è chiaro, sembra non presentare contraddizioni o ambiguità e pertanto avrà una lunga fortuna. Questa tripartizione la ritroviamo, ad esempio, in Sant’Agostino, uno dei più importanti padri della chiesa cristiana che attribuiva senza preoccupazione alcuna la sensibilità agli animali. Qualche preoccupazione, invece, avrebbe dovuto averla.

Durante il periodo medievale il rischio di contraddire le sacre scritture era dietro l’angolo.

Infatti, mentre Aristotele poteva ragionare sull’anima (umana e non) senza preoccuparsi delle eventuali incompatibilità con il concetto di paradiso o di peccato, durante il periodo medievale il rischio di contraddire le sacre scritture era dietro l’angolo e, come noterà Malebranche, filosofo e religioso francese del ‘600, anche Agostino incappa in un vicolo cieco. Il grande teologo d’Ippona, in accordo con la Bibbia, aveva sostenuto che, essendo Dio misericordioso, avrebbe concesso a chi non avesse mai peccato l’impossibilità di patire il male.

Ovviamente gli animali non sono da considerare peccatori, eppure subiscono ogni sorta di sottomissione da parte dell’uomo, peccatore d’eccellenza.

La creatura innocente sarebbe vittima dei capricci della creatura che ha peccato… Qualcosa non torna.

La presenza di questa impasse filosofica sembra dissolversi, nel peggiore dei modi, quando Cartesio, dopo aver concordato con i peripatetici che le bestie non hanno la ragione, aggiunge che chi non ha razionalità non ha neppure sensibilità o, detto in altri termini, che gli animali, privi di ragione, sono composti di sola materia; non hanno né l’anima né le sensazioni.

cartesio2Gli animali, privi di ragione, sono composti di sola materia; non hanno né l’anima né le sensazioni

La conclusione a cui arriva Cartesio non è solo sorprendente ma, probabilmente, anche una delle più sofferte in filosofia. La celebre tesi degli animali macchina, infatti, non è mai presentata integralmente nei suoi scritti, e viene confermata soltanto quando due dei suoi principali critici, Arnaud e Gassendi, attribuirono a Cartesio la negazione della sensibilità degli animali mettendolo con le spalle al muro.

Qualche indizio delle intenzioni di Cartesio possiamo trovarlo, ad esempio, nel Discorso sul metodo (1637) nel momento in cui si faceva un accenno sulla possibilità di macchine costruite ad arte con la forma di un animale.

Di fronte a questi automi, dice il filosofo, non siamo in grado di stabilire quali dei due sia il vero animale e quale la sua imitazione, poiché le creature non umane sono del tutto sprovviste di ragione.

Dal momento che non potrebbe in alcun modo sorgere lo stesso dubbio di fronte ad un uomo ed alla sua insuperabile imitazione meccanica, grazie al linguaggio e all’agire secondo conoscenze come elementi discriminanti, si potrà affermare sicuramente che l’anima degli animali è di natura del tutto dissimile dalla nostra. Siamo di fronte ad un camuffamento perfetto della vera ipotesi di Cartesio: si parla di anime di diversa natura, un compromesso facilmente accettabile anche dagli obiettori.

Tuttavia la foschia dietro la quale la pericolosa idea di Cartesio doveva restare ben nascosta, inizia a diradarsi una volta affermato, nella seconda delle sei Meditazioni sulla filosofia prima (1640), che una cosa che pensa «è una cosa che dubita, intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, inoltre, e sente».

Mente, anima, intelletto e ragione finiscono per diventare sinonimi di un unico grande concetto: quello della res cogitans, la sostanza che ha come essenza il pensare.

Ma allora il pensiero diventa condizione necessaria del sentire e chi non pensa non solo non ha anima, ma neppure sente; il dado è tratto e Cartesio non può più nascondersi.

La soluzione proposta, c’è da dirlo, è brutale ma efficace: togliendo l’anima agli animali vengono tranciati tutti i nodi gordiani delle incompatibilità tra religione e filosofia. Tuttavia se ne vengono a creare di nuovi, intrigati quanto i precedenti.

Pierre Bayle, filosofo ed enciclopedista vissuto nella Francia della seconda metà del XVII secolo, rispolvera uno scritto di Hieronymus Rorarius che, per difendere Carlo V dalle accuse di un forestiero, tenterà di dimostrare che gli animali non solo hanno la razionalità, ma che la usano meglio di alcuni uomini, nel novero dei quali rientra il diffamatore del re.

Hieronymus Rorarius tenterà di dimostrare che gli animali non solo hanno la razionalità, ma che la usano meglio di alcuni uomini.

Un esempio portato in difesa di Carlo V è che gli animali spesso trattengono gli istinti, come il cane che per paura d’essere picchiato non mangia il cibo che non gli spetta, cosa che molti uomini non riescono a fare.

Siamo di fronte ad un vero e proprio ragionamento che si sviluppa a partire dalla valutazione delle possibili conseguenze derivanti dalle azioni.

Sulla scia di Rorario, dopo aver criticato i peripatetici, Bayle attacca anche il meccanicismo cartesiano con un argomento che vale la pena d’essere analizzato. La razionalità, ci dice Bayle, può essere assente, in determinate circostanze come nella prima infanzia, nell’età avanzata o in caso di qualche patologia, anche nell’uomo ma, nonostante questo, non oseremmo mai sostenere che l’infante o il vecchio sono senz’anima (ricordando che ragione, spirito ed anima in Cartesio sono sinonimi).

Molto più ragionevole sarebbe affermare, al contrario, che, proprio come la cera che si adatta allo stampo, anche l’anima si adatta alle strutture degli organi nei quali è stata riposta da Dio.

In questo modo, se la nostra anima fosse congiunta ad un corpo angelico, proverebbe sensazioni più nobili ed avrebbe pensieri più puri, viceversa, se fosse legata ad un corpo più rozzo prevarrebbe un’indole più terrena e legata alla sensibilità. Bayle però non è uno sciocco e si rende conto che da questo labirinto non se ne esce: ammettiamo che gli animali abbiano un’anima e otterremo risultati disastrosi per quanto riguarda la religione, togliamo lo spirito dalle bestie e con esso sparirà anche l’immortalità dell’uomo. La paradossalità del tema è tale che Bayle cercherà rifugio nell’armonia prestabilita di Leibniz, senza per altro ottenere risultati soddisfacenti.

Forse, l’unica soluzione possibile al dilemma è quella offerta dalle neuroscienze che tentano di ripensare l’anima come coscienza.

Forse, l’unica soluzione possibile al dilemma è quella offerta dalle neuroscienze che tentano di ripensare l’anima come coscienza ed intenderla come emergente dalle funzioni cerebrali, proprio come sosteneva Bayle, al quale però, vittima del suo tempo, non avremmo potuto chiedere tanto.

 

 

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