The Invitation: un raro sottogenere prima del thriller

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È ironico ma per niente sorprendente che un thriller di così alta qualità, come non è scontato trovare in circolazione, abbia avuto risonanza a partire dal South by Southwest, un grande festival principalmente musicale made in Usa.

Se constatiamo che un film di pregio qual è The Invitation sia il quarto lungometraggio in quindici anni di una Karyn Kusama in stato di grazia, i numeri ci dicono che una regista per niente prolifica con un attivo di almeno due tonanti flop (certamente apprezzabili da una nicchia) e il dignitoso Girlfight (che ha lanciato Michelle Rodriguez), non sia proprio un’attrattiva per i grandi canali distributivi.

Prendete una manica di attori conciati come modelli o, come spesso accade, il contrario, e buttateli dentro una villa che sprizza opulenza e sufficiente disponibilità di locali e open spaces per farne un set da un montato di un’ora e mezza, e presentatelo in una locandina, tra le altre, con l’intenso primo piano del protagonista tutto occhi gialli, baffo alla uomo lupo e allarme effetti speciali scrausi  impazzito.

The Invitation cattura lo spettatore, grato di non incappare nell’ennesimo raggiro della settima arte.

Il risultato inatteso è The Invitation, uno di quei film casalinghi sull’orlo del claustrofobico (nulla a che vedere col magistrale Buried di Rodrigo Cortés, ambientato interamente in una bara) che con esercizio di stile e un sano espediente a far da motore scenico cattura lo spettatore, grato di non incappare nell’ennesimo raggiro della settima arte.

 

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Un gruppo di persone belle e simpatiche, in gran parte amici di vecchia data, si riunisce su invito a cena dell’ex moglie di uno degli ospiti proprio nella villa di Los Angeles dove abitavano fino a due anni prima, al momento della morte del figlio seguita dalla loro separazione.

Lei, una Tammy Blanchard che con un solo schiaffo vale l’intera visione, vive lì con l’attuale compagno (il Michiel Huisman fedele sottoposto della KhaleesiIl trono di spade) e una giovane amica maliziosa, a cui si aggiungerà per l’occasione un secondo conoscente dal cipiglio un pò truce. Le premesse e le sensazioni iniziali ricordano Regali da uno sconosciuto – The Gift, nel senso di un passato misterioso che si fa opprimente e mette nelle mani di tutti una metaforica barra dell’equilibrista: rotta la stasi, insidiata con un invito a cena dopo anni di assenza e con il dubbio su quale degli ex coniugi abbia affrontato meglio il lutto, il cinefilo non da meno dei personaggi viene chiamato ad essere giudice e acrobata, lungo la corda tesa che segue la trama ma fa anche da perno alla bilancia morale di cui ognuno dispone.

Tra incertezza e instancabile calibratura di quanto accade, The Invitation trasuda puro sentimento thrilling.
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Si assiste ad un impiego esemplare del ralenti, durante lo spartiacque emotivo della pellicola.

Inevitabilmente, dal punto di vista tecnico non si può rimanere delusi e, tanto per anticiparne una, dopo svariati utilizzi comici, tamarri, o semplicemente inutili del ralenti, qui si assiste ad un impiego esemplare dello stesso, durante quello che è oggettivamente lo spartiacque emotivo della pellicola (pelle d’oca alert). Inoltre la regia, ben nascosta e intrinseca all’impianto narrativo, anche quando fa capolino e sembra concedersi un’ingenua sbavatura sta invece giocando con le nostre aspettative per poterle ribaltare o sincopare, concedendo in ogni caso una boccata d’aria. Non grido alla pietra miliare ma a un sottogenere cinematografico senza nome, che personalmente ho incontrato di rado e superata una certa età non ho mai creduto di ritrovare: si tratta della capacità di un film di farsi prendere sul serio, di gettarci in apnea nella quarta parete e di rendere necessaria una riemersione, una messa in pausa.

 

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Un sottogenere cinematografico capace di gettarci in apnea nella quarta parete e di rendere necessaria una riemersione.

E’ capitato con Il sospetto di Thomas Vinterberg, perché un Mads Mikkelsen testa d’asino captava empatia a palate, ma anche con 28 settimane dopo, sequel del celebre 28 giorni dopo di Danny Boyle, banalmente nella scena in cui l’epidemia andata scemando nel primo capitolo trova nuovo corso. Non imputo questo effetto a doti attoriali superiori o a colpi di scena riusciti, ma a un realismo feroce e spudorato, simile a quello che ha fatto uscire dal cinema qualche attempato conservatore durante La vita di Adele, o fatto bestemmiare d’indignazione un signore durante la proiezione di The road.

La differenza sostanziale, che traccia il confine tra sottogenere sopracitato e questione di etica personale, sta nel ritorno in sala per il secondo tempo

perché in realtà si era andati a prendere da bere, e nell’accogliere repulsione e imbarazzo per processarli con sguardo di sfida: insomma premere play, a meno che non siano davvero indigesti argomento e contenuti (per carità, può succedere). Interessante come molti passaggi del film possano prestarsi allo stesso discorso e alcuni personaggi debbano stabilire se intestardirsi e quando averne abbastanza rispetto alla insolita reunion.

 

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In fin dei conti non dovrebbero esserci problemi nell’approcciarsi all’opera firmata Karyn Kusama (di cui possiamo ricordare Aeon Flux con Charlize Theron in acconciatura emo), dato che l’evangelico Logan Marshall-Green regge con professionalità l’onere del leading role emarginato, e tra uno sprazzo d’ira e l’altro tiene invischiata la giuria in uno spettacolo di funambolismo mentale o, se preferite, di thriller midollare.

 

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