Panic! At the Disco – Death of a Bachelor

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Il mondo della musica spesso è oggetto di dibattito, spesso per gli argomenti più disparati, spesso negli ambienti più imprevedibili e spesso da gente (io per primo) che ne vede appena la punta dell’iceberg.

Questo perché suonare ed evolversi, passare dal garage di casa agli ambienti professionali, fa sì che il concetto di musica stesso si trasformi diventando da fervida passione ad un lavoro propriamente detto.

 

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Tutti voi siete pronti ad urlarlo scommetto.

 

Fermi tutti: con questo non sto dicendo i soliti discorsi da complottista della serie “ti devi vendere per diventare qualcuno”, ma semplicemente che quando si raggiungono certi livelli sopraggiungono degli accordi commerciali, contratti, riunioni, decisioni (accordi) e tutta una serie di sfumature che prima non ci sfioravano minimamente.

Casi come questi ci portano a vedere evoluzioni come quella dei Panic! At the Disco, che il 15 gennaio hanno pubblicato il loro quinto anno. Anche se il disco figura di questa band, c’è da dire che della formazione originale è rimasto solo Brendon Urie, il frontman, che per questo disco ha praticamente scritto e registrato tutto in prima persona (anche se altre persone compongono la formazione e sono presenti anche i turnisti del caso).

Della formazione originale è rimasto solo Brendon Urie.

Il nome del CD è Death of a Bechelor, titolo anche di una delle tracce dell’album e che narra proprio di Brendon e della fine della vita da celibe, dedicando la canzone alla neo-moglie.

Death of a Bechelor è un disco composto da 11 tracce per un totale di 35 minuti e 50 secondi. Osservato nella sua interezza, l’album parte con tematiche festaiole, per poi spostarsi in una sfera più introspettiva e cupa. dal punto di vista musicale invece, questo album è paradossalmente quello più bilanciato tra tutti quelli precedenti, riuscendo ad incarnare sia lo spirito pop-punk che quello strettamente più commerciale.

Victorious, la traccia d’apertura, e le due che la seguono compiono infatti una trilogia che segna il “prima del matrimonio”: serata votate al cazzeggio, ai divertimenti sfrenati che durano tutta la notte. Non so bene perchè, ma le vedo canzoni estremamente “americane”. Hallelujah inoltre è quella che riesce a trasmettere di meno, eppure è lì, proprio dove deve essere, perché in quella posizione riesce a regalare un ottimo effetto di contrasto con Emperor New Clothes, una traccia decisamente più teatrale (con un’atmosfera che tocca il Tim Burtoniano), e accompagnato con un video altrettanto scenografico.

 

 

Crazy=Genius, LA Devotee e Golden Days compongono un’altra tripletta di tracce che hanno una componente fortemente narrativa (LA Devotee sembra tratta da una Polaroid) e che rappresenta anche la parte che funge da collegamento con i CD precedenti. Qui si vede come il contributo di Brendon sia presente dal primo album fino all’ultimo e come sia cresciuto.

The Good, the Bad and the Dirty è probabilmente la traccia meno riuscita perché poco concreta e troppo confusionaria. Forse avrei preferito un interlude strumentale che avrebbe poi portato ad House of Memories ed Impossible Year, le ultime due tracce dell’album ed entrambe caratterizzate da toni molto cupi: la prima parla delle emozioni che si possono  provare in seguito ad un divorzio; la seconda invece è lo sfogo di chi ha appena passato un anno veramente difficile.

 

 

Infine, anche se nella tracklist risulta alla quinta posizione, Death of a Bechelor è la traccia che dona il titolo dell’album. Immagino che sia la traccia più importante, quantomeno per  il cantante visto che narra della fine dei suoi giorni da scapolo e all’inizio della sua vita con la moglie. La traccia è un lento veramente bello, con sonorità che hanno un pizzico di malinconico, mentre il testo rappresenta al meglio le classiche tematiche amorose quali la paura di non essere ricambiati, oppure di non essere mai abbastanza. Molto apprezzabile la somorità lenta, ma esattamente quel giusto da enfatizzare il tutto.

Death of a Bechelor è senza dubbio la traccia più significativa dell’intero album.

In definitiva, il mio giudizio per l’ultimo album dei Panic! At the Disco é senz’ombra di dubbio positivo. Anche in questo prodotto, frutto di un viaggio incominciato in quattro e continuato da solo, si sente comunque la presenza di uno sguardo verso il passato ed uno verso il futuro. Death of a Bechelor non delude le aspettative riuscendo ad offrirci 11 traccie piene del carisma al quale il cantante ci ha abituati nel corso degli anni.

 

Il brano che ho apprezzato di più: Golden Days
Il brano che ho apprezzato di meno: Don’t Threaten me with a Good Time
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