Hateful Eight: Quentin Tarantino strikes back

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Certi film non si possono mancare al cinema. Quando uno pensa all’immaginario western, quello della prateria, delle diligenze, delle stazioni di posta e dei cacciatori di teste. Quando ti viene in mente tutto un immaginario che può partire da Sam Peckinpah fino ad arrivare a Sergio Leone, passando magari da Ken Parker (deviazione personale mia, ma non posso farne a meno), commentato sonicamente dal Maestro Morricone in persona e reinterpretato dal genio visionario di Quentin Tarantino, uno non può non avere voglia di filare al cinema.

Ed è proprio con questa attitudine che ieri sera mi sono addentrato in Sala Energia al cinema Arcadia di Melzo, uno dei pochi cinema in tutta Europa ad avere a disposizione la pellicola a 70mm proprio come nelle intenzioni dell’autore. Per l’occasione il cinema, che del benessere degli spettatori ha fatto una ragione di ita da tempo immemore ha rinnovato lo schermo (30 metri a telo unico) ed ha quasi ultimato l’upgrade audio a livello Dolby Atmos.

Nulla a che vedere con il classico cinema da centro commerciale, credetemi.

Amo il cinema di Tarantino, lo amo dalla prima volta che ho visto Pulp Fiction. Amo lo stile serrato e senza compromessi. Amo le citazioni, ed i dialoghi ricercati e dinamici. Amo il suo amore per il cinema e so bene che, indipendentemente dal risultato finale, la pellicola sarà un labour of love e come tale avrà sempre il suo spazio nella mia personale collezione.

Le aspettative sul suo ottavo film erano veramente alte.

Detto questo, le aspettative sul suo ottavo film erano veramente alte. Una storia western di ampio respiro, raccontata in capitoli con un intermezzo di 12 minuti per giustificare la lunghezza della storia.

Il plot è abbastanza semplice ma sufficiente a far sfrigolare la mia fantasia. Otto brutti ceffi arrivano con due diligenze in una stazione di posta, cercandovi riparo da un incombente tempesta di neve. Otto brutti ceffi tutti con una storia, e qualcuno che forse non dice la verità.

Ve la immaginate vero, la situazione? Non voglio dilungarmi troppo sull’intreccio per non rovinare la visione a chi andrà a vederlo dal prossimo 4 febbraio. C’è il vecchio generale sudista, il manigoldo diventato sceriffo, il boia, il messicano, il vaccaro, il cacciatore di teste con la sua prigioniera da 10.000 dollari e l’altro cacciatore di teste nero ex maggiore dei nordisti. Abbastanza da tirarci fuori una serie tv, se volete la mia.

Intendiamoci subito, Quentin ha sempre scritto film che fossero sue re-interpretazioni di vecchi west e da un paio di pellicole si dedica al suo amore principale. Mentre in Django però la pellicola conservava un delicato sapore citazionista, che rimandava l’omaggio al cinema dei maestri inserendolo in un contesto reinterpretato in chiave moderna, qui si ha di più la sensazione che Quentin sia maturato e cominci a giocare coi grandi.

La pellicola è piena di rimandi, come è giusto che sia un film del genere, ma questa volta sono perfettamente integrati nella trama.

La diligenza, la stazione di posta, i costumi dei personaggi e più genericamente tutti gli oggetti di scena, fanno parte del tradizionale immaginario del west di ampio respiro. L’ambientazione è qualcosa di differente. A mia memoria non ci sono molti western ambientati nel corso di una tempesta di neve, con un unico set principale ridotto ad un capanno di legno di pochi metri quadri. L’impianto narrativo, suddiviso in capitoli quasi fosse un libraccio pulp è vecchia scuola tarantiniana, così come l’occasionale voce fuori campo ed i salti avanti ed indietro nel tempo del racconto.

 

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La differenza vera è proprio nella Storia.

La differenza vera è proprio nella Storia. Per la prima volta Quentin sembra voglia smettere di strizzare l’occhio ad un genere mostrandoci una storia originale, con il suo originalissimo punto di vista. È un Tarantino fuori dagli schemi quello che fa muovere i suoi otto personaggi in un capanno quasi come fosse una piece teatrale. La sensazione è che voglia uscire da alcuni dei suoi schemi. I dialoghi incalzati qui appaiono più rarefatti, la battuta strutturata sulla punch line rimane, ed ha un effetto più forte proprio perché si ha maggior tempo di assaporarlo. Anche il ritmo è dilatato. La telecamera si sofferma sui dettagli, i 70 mm ci regalano campi lunghi paesaggistici che contribuiscono a commentare la desolazione delle montagne del Wyoming.

 

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Quello che per fortuna non manca è l’occasione humor nero che strappa qualche risata al di là di una trama bella pesa dove si percepisce ad ogni spron battuto la paranoia e la tensione creativa.

Insomma Tarantino ci guida in questo mondo gelido di pietà e ci conduce così bene che a due quinti del film si ha l’impressione che possa succedere di tutto, e quello che può venirci in mente sicuramente è molto al di qua delle aspettative.

La tensione si gonfia, si arriva al punto critico e poi… poi come un soufflé cotto male succede qualcosa.

Mettiamola così, senza voler dispensare particolari spoileranti, mi limito a dire che i primi quattro capitoli sono semplicemente perfetti. Il quinto vacilla ma tiene ancora bene il ritmo. Nel sesto ed ultimo accade il peggio. È come se Quantin, si fosse preparato per entrare alla festa dei grandi, avesse indossato il suo smoking più pregiato e si sia imposto di mantenere un’espressione serie educata al grade club del cinema. Abbia sorretto per bene il calice con lo champagne e retto a tutta la fuffa che i vecchi tromboni che presenziavano avevano da dire. Poi non ce l’ha fatta più ed ha iniziato a sghignazzare.

 

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Il Tarantino adulto dei primi due terzi del film, lascia spazio al Tarantino commesso di un videonolo di venticinque anni fa. Pieno di tante idee ma anche di tante trovate punk e fuori contesto volte ad hackerare il registro del film e confondere gli spettatori.

Intendiamoci una sua pellicola moderata e controllata, sottoposta ai ferrei dettami del perfetto canovaccio della storia western non interesserebbe a nessuno. Il mondo è pieno di pellicole di John Ford per quello. Ma qui la vena tradizionalista e quella anarchica sono completamente separate e non comunicano nel modo migliore.

Tanto lineare e densa la prima parte, tanto grottesca e gratuita la seconda.

Alcune scene non fanno rimpiangere gli effettacci del geniale Dal Tramonto all’Alba. Il punto è che quello era un film indipendente e questo quasi un colossal. Per questo mi sarei aspettato quel tocco di grazia in più necessario a far compiere a Tarantino il salto.

Amo una pellicola di rottura quando l’effetto è giustificato per potenziare la storia. Ma in questo caso a tensione si sfalda in risate grasse ed umorismo spicce e tutto il castello di carte che si è messo assieme per quasi due re vacilla ed infine crolla. E’ come se fuori dai suoi soliti standard, Tarantino sia caduto vittima del suo stesso gioco e quella stessa maledetta stazione di posta sia finita per stare troppo stretta a lui per primo.

Un film imprescindibile, insomma, ma non certo il grande salto che ci si aspettava. Peccato.

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