Maison Ikkoku, o perché non fanno più i manga di una volta

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Questo potrebbe suonare come un post nostalgico, me ne rendo conto. Ma, questa notte ho fatto quasi le tre di mattina per finire di leggere una storia, che, come la prima volta, ha fatto vibrare certe corde, commuovendomi, mettendomi ansia ed impazienza ed alla fine rendendomi completamente felice.

Salterò un po’ alle conclusioni, ma se una storia riesce a fare tutto questo, non può già di per sé dirsi meravigliosa? Io credo di si e semmai il punto è: come mai non incontro più spesso come una volta storie di questo genere?

Vabbè è chiaro, è un discorso che ha a che fare con l’esperienza. Più si va avanti, più si cercano storie nuove, più è complicato trovare stimoli che possano far vibrare quelle famose corde in maniera così atavica.

Il fatto è che, Maison Ikkoku, ci riesce benissimo utilizzando una storia che nella sua semplicità è praticamente disarmante. Puristi e snob preparatevi a storcere il naso. So bene che il filo che suddivide semplicità da banalità spesso è trasparente. Ma in questo caso non funziona. La trama si muove su di una serie di personaggi caratterizzati in maniera assolutamente brillante. Kyoko Otonashi, giovane vedova decide di gestire un vecchio stabile di proprietà della famiglia del marito.

Tra tutti Yousaku Godai spicca, soprattutto per sorprendente capacità di indecisione e sfacciata sfortuna. Godai che, fatica a trovare una posizione nella solida gerarchia sociale nipponica si innamora perdutamente di Kyoko, di lui appena due anni più anziana. Oltre ai fastidiosi beoni che condividono le camere dell’Ikkuko-kan Godai deve vederserla con Shun Mitaka, splendido e ricco maestro di tennis e, ovviamente con l’ineffabile presenza del di lei primo marito Soichiro.

 

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Chiamatela se volete commedia dei buoni sentimenti, la storia, che da triangolo diventa prima quadrato e poi addirittura pentagono è soave nella sua delicatezza. E, soprattutto, malgrado l’esoticità dell’ambientazione, è universale.

Le disavventure del povero Godai, le insicurezze, le sfighe, sono umanamente comprensibili, anzi, alzi la mano chi, nerd, non si è trovato mai in situazioni di quel genere.

Se invece vogliamo considerare l’ambientazione, ecco qui il discorso è più ampio. Facciamo un passo indietro. In Italia i manga sono arrivati molto tardi, principalmente dopo l’america e parte dell’europa. E fondamentalmente sulla scia del fenomeno televisivo degli anime. Che all’epoca erano adattati in maniera pessima e, al massimo, gli chiamavamo cartoni animati.

 

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I primi arrivati in Italia furono l’immenso Akira di Katsuiro Otomo, ricolorato in america dallo studio di Steve Oliff per la Epic Marvel e pubblicato in Europa da Glenat. Pochi mesi dopo arrivò Zero che era un antologico della granata press con Hokuto no ken di Buronson e Tetsuo Hara, Baoh di Aruiko Araki e Xenon di Masaomi Kanzaki. E poi fu a rivoluzione.

Dopo anni passati a divorare comics, leggere manga fu uno sconvolgimento vero. Intanto per lo stile grafico, rigorosamente in bianco e nero e ricco di linee di velocità e retinature. Uno stile che poteva essere estremamente semplice (fino a ricordare in certi casi il character design dei cartoni animati), sia estremamente raffinato. Non c’erano censure o comics code che approvassero le storie, il che significava violenza più esplicita, sesso, e generalmente parlando una caratterizzazione molto più matura dei personaggi.

E poi, c’era quello che fino a quel momento era mancato pur essendo cresciuti a pane e cartoni animati. La mancanza di adattamento permetteva di entrare in un mondo più profondo, basato sullo stile di vita nipponico. Usi e costumi, modi di dire, abitudini. Era qualcosa di veramente rivoluzionario se solo si riusciva a leggere oltre il contesto. Certo la rivoluzione portò all’invasione. E con l’invasione venne sdoganata palta di tutti i tipi (ricordo ancora i compagni di liceo che si vantavano di capire di manga solo perché leggevano la clinica dell’amore).

I manga rappresentavano una finestra sull’estremo oriente.

Ma, in linea generale, i manga rappresentavano una finestra sull’estremo oriente. Finestra che mi permise di avvicinarmi ad autori del calibro di Banana Yoshimoto (kitchen ed NP sono ancora dei piccoli capolavori) e di Haruki Murakami (adesso gli dedicano piatti a Masterchef, nni fa era uno sconosciuto che pubblicava  per Feltrinelli).  Fino a scoprire poi le avventure in suol d’oriente di un grande viaggiatore, Fosco Maraini.

E proprio rileggendo da adulto Maison Ikkoku che mi sono tornati più in mente gli scritti di Fosco Maraini che in Giappone fu prigioniero politico dopo i ’43 ma che non ha mai rinnegato il suo amore per una terra così distante e ricca di cultura. Leggendo le pagine di Rumiko Takashi si comprende la vita in una grande metropoli giapponese negli anni ’80.

La fascinazione per i locali all’occidentale, vicino ai quartieri con i locali per soli uomini e soap and. I bagni pubblici e le vacanze alle terme. Tutto narrato con una delicatezza ed un senso della normalità che non sfigurerebbero in un manuale di sociologia.

Screen Shot 2016-01-25 at 12.57.09Rumiko Takashi, che poi è famosa per Uruseiyatsura (Lamù) e Ranma 1/2, con Maison Ikkoku scrive una storia di amore tradizionale, tenera e commovente. Una storia, raccolta recentemente in 10 volumi da Star Comics, che non dovrebbe sfigurare in nessuna collezione di fumetti, e che è indispensabile componente di una biblioteca ideale di manga.

A completare il tutto ci sono dei disegni semplici, ma dettagliati. Non troppo denso di retini ma proprio per questo carico di un’essenziale bianco e nero che ha saputo fare scuola.

E qui veniamo al punto dolente. Io che leggo parecchi fumetti, e non disdegno manga, se devo comprare nuove proposte sono a disagio. Mentre amo i maestri classici, la Ikeda, La Takashi, Burons, Tetsuo Hara e Riochi Ikegami, Matsumoto, IShinomori e Go NAgai e persino Kurumada, davanti alle nuove proposte, mi perdo.

Non so cosa sia successo. Sarà che nel frattempo molti tratti distintivi del manga sono stati assorbiti dalla scuola americana e da quella europea, ma quello che è successo alla scuola nipponica n on saprei definirlo. Storie ridotte ai loro tratti essenziale, decine di ragazzine alla marinaretta con armi della seconda guerra mondiale,  armature, robot e sesso in tutte le forme. Una volta ho sentito dire che il mercato de manga attuali è in mano ai fan, e da fan stanno trattando tutto il mercato.

Non so se la risposta giusta sia quella, se gli autori, e gli editori, semplicemente stiano cercando di dare al pubblico quello che vuole.  Ma una cosa di sicuro manco, io, la magia di passeggiare per il quartiere Tokeizaika, senza esserci stato mai, non l’ho provata più.

 

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