L’ascesa di Kurzug

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Kurzug era in sella al suo meta-lupo sopra un’altura rocciosa. Il sole, velato da enormi nuvole violacee e da un cielo grigiastro, pareva prostrarsi ai suoi piedi impotente innanzi alla sua grandezza e a quella delle sue legioni.

Davanti a lui si ergeva Piltus, l’ultima città degli uomini ancora in piedi. L’orco poteva scrutare gli arcieri irrequieti e spaventati sulle mura; uomini ed elfi si ergevano per un’ultima volta insieme contro un nemico che oramai, nel pieno della sua ascesa, aveva conquistato tutti i loro territori, bramoso di soddisfare la propria vendetta.

Le urla delle donne e i lamenti dei neonati si potevano udire sin fuori le mura, il caos si era già impadronito della città; il meta-lupo annusava l’aria bramoso di sangue e ringhiava verso le mura che, per lui, altro non erano che l’ultimo ostacolo che lo separavano da una fonte ricca di prede.

Nel silenzio dei campi davanti alle mura grigiastre della città, interrotto solo da qualche alito di vento timido e dagli ordini dei comandanti, la voce di Kurzug tagliò in due l’aria rimbalzando nelle pareti rocciose, fino quasi a penetrare i merli e le torri di Piltus, entrare nelle viscere degli uomini e sconquassarne l’anima.

«Questo è l’odore della paura! La fine per loro è vicina e inutile sarà implorare le loro deboli divinità per la salvezza. Presi dalla paura della morte e dall’angoscia, dimenticheranno presto il rispetto e l’ordine che decantano, l’egoismo trionferà incontrastato e si uccideranno tra fratelli per avere anche un solo giorno di vita in più. Scapperanno davanti alla potenza degli orchi e rimpiangeranno il giorno in cui assediarono i nostri fortini, le nostre case e sterminarono i nostri cari. Per secoli ci hanno creduto mostri e “mangiauomini”; non facciamoli ricredere proprio oggi!»

Kurzug parlò con la lingua degli orchi, un alfabeto oscuro, affilato e glaciale; gli esseri umani non riuscivano talmente ad ascoltarlo che, quando conquistarono le loro terre, lo bandirono e condannarono a morte chiunque ne facesse uso. Ma il generale degli orchi, ormai arrivato all’atto finale della sua rivalsa contro chi distrusse la sua razza, la fece tornare prepotentemente in vigore, vedendo accrescere sempre di più le sue schiere.

La sete di vendetta era ciò che alimentava da sempre il cuore di Kurzug. Da quando, decenni prima, vide sterminare il proprio clan sotto i colpi di spada dell’alleanza tra uomini ed elfi, altro non desiderava che mettere a ferro e fuoco i loro regni e instaurare un’egemonia orchesca.

Gli orchi avevano sempre vissuto ai piedi delle montagne o vicino ad esse, costruendo fortini in legno o piccole cittadine fortificate lontane dalle città degli uomini e degli elfi, in modo da vivere la propria vita in pace. Molti insediamenti però, confinavano con i reami degli uomini ma, nonostante i pregiudizi e la poca fiducia verso gli orchi, si instaurarono patti di non aggressione e, addirittura, alleanze commerciali.

Gli orchi erano ottimi minatori e fabbri; riportavano alla luce vene di ferro grezzo che, dopo esser stato lavorato, veniva usato per costruire armi e corazze di ottima fattura. Gli uomini approfittarono di questa loro predilezione e, scambiando le merci dei clan con cibo e insegnamenti sul come lavorare la terra, fecero abbandonare agli orchi, l’usanza di razziare e derubare per guadagnasi da vivere. Non tutti i clan però riuscirono a mantenere un rapporto di pace con gli esseri umani; quest’ultimi, contando sulla propria maggioranza numerica e militare, sull’appoggio degli elfi che disprezzavano totalmente gli orchi, e forti del fatto che i clan non contavano più di due centinaia di elementi ciascuno, mutarono quelle che prima erano alleanze, in sfruttamenti e violenze gratuite.

Svariati clan, decisero dunque di ribellarsi dando vita così alle prime guerre di confine. Uno dei fortini ribelli era quello del clan dei Manorossa, patria di Kurzug che, all’epoca, era ancora troppo giovane per saper impugnare una mazza. Aveva però già il dono della memoria e mai si sarebbe dimenticato in vita sua cosa accadde quel giorno.

Le palizzate del fortino avvamparono e presero fuoco come per magia, il freddo della giornata invernale scomparì all’istante, cedendo spazio ad un caldo infernale con lingue di fuoco che schizzavano in aria, divorando tutto quello che gli si parava davanti. Il portone principale si spalancò con uno schianto colpito da un ariete e, da dietro di esso, sbucarono uomini dall’armatura grigiastra armati di spada e scudo. Ricordò Lurdug, un giovane orco posto come sentinella sull’unica torretta davanti all’entrata, cadere soffocando, colpito da una freccia sul collo, e poi vide suo padre impugnare il martello di guerra, sconfiggere alcuni guerrieri e poi cadere in ginocchio trafitto da due lance.

Sull’altura in sella alla sua bestia, Kurzug si passò la lingua sulla cicatrice che portava al labbro inferiore; si ricordò di quanto si morse la bocca coi suoi denti affilati mentre, in una lotta interiore con se stesso, il giorno della caduta del suo clan, scappò tra le macerie sconvolto e spaesato.

Ogni giorno, il giovane orco si alimentò di odio e violenza; baciato dalla fortuna, fu accolto da un gruppo di orchi sopravvissuti nelle foreste vicine; avevano creato un campo base e vivevano di caccia e banditismo. Crescendo però, Kurzug poté dar prova di essere il figlio di un capo clan e, molto presto, pretese il comando della compagnia sfidando, e uccidendo, l’orco più anziano. Da quel momento, decise che gli orchi si sarebbero vendicati; sfruttando il suo dono di essere adulatore e condottiero, comandò i suoi simili nei primi attacchi ai villaggi; nonostante il suo cuore avesse conosciuto la pace, in quel periodo non ebbe pietà per nessuno: trucidò tutti coloro che gli si posero davanti, incendiò le foreste degli elfi, avvelenò i loro fiumi e distrusse le coltivazioni.

Ogni giorno che passava, orchi provenienti da tutti i clan delle montagne si unirono a lui fino a quando non formarono un numero talmente grande, da dover occupare un’antica fortezza del nord. Lì, piegò al suo volere anche gli alti orchi e i troll di quelle terre e, in un giorno d’inverno simile a quello in cui conobbe la paura, decise di calare dalle montagne e riversare la sua rabbia verso i suoi nemici.

La sua avanzata fu incontrastabile, mortale e senza pietà; rase al suo qualsiasi villaggio, qualsiasi città; perfino i potenti maghi venuti da oltre mare non poterono nulla verso quell’odio oscuro che, ben presto, fu appoggiato dalle divinità maligne; gli fu donato ancora più potere, ancora più schiere di servitori, bestie immonde e violente quasi quanto lui fino a che, nello stesso giorno di trent’anni dopo la caduta della propria razza, si ritrovò davanti a Piltus.

Accarezzò il manto della sua bestia, inspirò l’aria fredda dell’inverno che scese lungo le sue narici fino a riempirgli i polmoni, mentre il corpo caldo del meta-lupo gli scaldava le gambe; chiuse gli occhi per qualche istante sogghignando, alzò le braccia e ancora una volta vomitò quel linguaggio tetro e disarmante

«Avanzate mie legioni! Avanzate!» E mentre lui scese dall’altura, il suo esercito cominciò a marciare in maniera compatta e precisa.

La sua non era un’orda caotica, aveva insegnato loro la strategia militare, come muoversi e risparmiare le forze, come un vero e proprio esercito regolare. Suddivise l’armata in legioni di migliaia di orchi ciascuna, ognuna comandata da un capitano esperto e istruito da lui in persona; quando era piccolo e incosciente di quello che stava accadendo, adorava veder sfilare le schiere elfiche, sentire i loro passi cadenzati e ammirare il loro avanzare all’unisono con le loro armature dorate, gli archi lunghi e le lame ricurve.

Apprese da loro come dirigere una battaglia e come farsi rispettare da migliaia di uomini, lo mischiò alla figura marziale ed austera del padre a cui tutti obbedivano e, infine, ripose tutta la sua fiducia in se stesso fino ad arrivare a quel momento, in cui gli Dei del male lo avevano nominato loro campione.

Sceso dal promontorio, proseguì lungo tutte le colonne del suo esercito fino ad arrivare alla testa; gli orchi ringhiavano e riproducevano versi gutturali per omaggiarlo e inneggiare agli Dei oscuri; alzò il braccio e comandò di sganciare le catapulte che, con forza, scagliarono enormi massi contro le mura di Piltus facendole tremare. Alcuni arcieri sulle mura caddero colpiti da piccoli massi, altri vennero schiacciati e scaraventati contro le mura delle case macchiandoli di sangue, scatenando ancora di più il caos e il terrore nelle strade.

Il cancello di Piltus si aprì, cavalieri dalle armature scintillanti e insegne dai colori vivaci uscirono al galoppo per poi dividersi in due plotoni, cercando di andare al colpire le macchine da guerra orchesche su due fronti.

«Chiama i tuoi fratelli» sussurrò Kurzug all’orecchio del suo meta-lupo

La bestia ululò facendo rabbrividire i cavalli che, intanto, stavano avanzando nella prateria, cercando di aggirare le schiere nemiche e disarmare le catapulte. Dai promontori calarono improvvisamente centinaia di lupi dal pelo scuro e dagli occhi gialli e scintillanti; con un balzo azzannarono i cavalli facendo rovinare a terra i cavalieri; i più fortunati morirono sul colpo, gli altri invece vennero sbranati ancora vivi dalle fauci delle bestie. Qualcuno sulle mura, vedendo il macabro spettacolo, vomitò e lasciò la propria postazione, mentre i massi continuavano a fendere l’aria e colpire le mura e il grande cancello.

Le macchine da guerra riuscirono ad aprire una breccia sulle mura e Kurzug guidò la sua immonda cavalleria verso di essa mentre il resto dell’armata, comandata dai suoi gregari, attese a metà della valle, aspettando che il cancello cedesse.

Una sortita di picchieri elfici tentò di tenere la breccia, i primi lupi caddero infilzati dalle lunghe aste acuminate o dalle bianche frecce elfiche; un plotone di uomini tentò di dare man forte ai lancieri ma subito vennero travolti dalla forza di Kurzug che però, perse il suo lupo, ormai trafitto da troppe frecce, rovinò a terra per qualche istante. Si rialzò ringhiando, i difensori indietreggiarono istintivamente mentre i lupi azzannarono e spezzarono le lance e assalirono gli elfi; ad ogni uccisione, il generale degli orchi sembrava soddisfatto e appagato.

Dall’altro lato della battaglia, il grande cancello di Piltus, ormai scalfito dalle catapulte, venne colpito da un ariete; i cardini cedettero dopo pochi colpi e l’armata orchesca, legione dopo legione, si riversò dentro la città. Nugoli di frecce ferirono a morte le prime file di orchi giunti sotto le mura, le schiere di Kurzug cercarono di proteggersi con i loro scudi dalle punte aguzze mentre scale e rampini, vennero poggiati sulle merlature dei camminamenti. I primi orchi raggiunsero le passerelle delle mura uccidendo gli arcieri, lo scontro era duro e macabro, il famoso coraggio degli uomini non cedeva e gli elfi continuavano a combattere riversando tutto il loro odio verso gli orchi. Kurzug capì che c’era bisogno di scatenare ancora più paura, distruggere la volontà dei suoi nemici. Salì quindi sulle mura e mentre mulinava la sua ascia e incuteva timore ai difensori, fece cenno ad un orco in sella ad un lupo che, superata l’altura dove prima il suo generale ammirava le sue schiere, comandò ai troll di scendere in battaglia.

I troll che risposero alla sua chiamata erano alti circa quattro metri, indossavano armature su misura, enormi, macchiate di sangue secco e adornate con pellicce di capra e montone; si poteva sentire il loro odore nauseabondo dall’altra parte del campo di battaglia. Superata l’altura piombarono nella prateria lasciando impronte e solchi profondi sul terreno, alcuni trascinavano la loro enorme mazza, altri sgranocchiavano i cadaveri dei cavalli; quando furono vicini alle mura, gli orchi fermarono la loro avanzata ed i combattimenti per riprendere fiato, solo Kurzug avanzò insieme a quei giganti tenendoli a bada e continuando a soggiogare le loro menti.

Massacrarono gli ultimi plotoni rimasti sulle mura e nelle prime strade della città, Kurzug li guidò fino alla grande piazza dove alcuni cadaveri erano stesi vicini ad una fontana; si erano suicidati consapevoli che non avrebbero superato la giornata; altri erano ammassati nei vicoli forse in cerca di rifugio nelle cantine; si potevano notare i segni di calpestamento, dovuti probabilmente dalle calche create davanti ai portoni.

Kurzug sbuffò sarcastico, seguì alcune scie di sangue sul terreno che lo portarono fino alla via principale, dopo la fontana. Le macchie scure proseguivano fino alla cittadella, dove risiedeva il re; poté notare un cancello chiudersi e gli ultimi soldati rimasti posizionarsi dietro di esso e gli arcieri elfici appostarsi sui tetti delle case lì vicine.

«Voglio le tre legioni più forti con me» sibilò ad uno dei suoi comandati

«Avete sentito il generale? Forza luridi vermi!» tuonò un orco armato di flagello e ancora sporco di sangue elfico

Kurzug fece avanzare i troll fino al cancello, gli arcieri tentarono di fermarli ma uno dei giganti sfondò l’entrata con un colpo di mazza, i suoi simili si riversarono nella cittadella massacrando i rimasti; le tre legioni invasero le strade della cittadella in cerca di superstiti mentre il generale, avanzò indisturbato dentro la sala reale. Vide il re seduto sul suo trono tremante, affiancato da due cavalieri intenti a compiere il proprio dovere fino all’ultimo istante

«Si sconfigge la paura con altrettanta paura mio sire…» Sibilò Kurzug nella lingua degli uomini mentre i suoi passi rimbombavano nel salone

«…Ero giovane quando gli uomini e gli elfi vennero a farmi visita, a me e al mio clan. Non vi bastò certo tutto quello che vi davamo no; siete sempre stati famosi per la vostra avidità e il vostro credervi superiori. Dovevate toglierci dal mondo, eravamo troppo immondi per voi» Kurzug continuava ad avanzare scaraventando a terra candelabri e strappando gli arazzi appesi alle colonne

«Guardate a cos’ha portato la vostra mentalità» il portone della sala si spalancò mostrando il macabro spettacolo dei cadaveri, dei soldati schiacciati dai troll e divorati dai lupi; Kurzug uccise uno dei cavalieri con una sola mossa, mentre l’altro scappò in preda al panico

«Avrai terre, oro e pace potente Kurzug!» lo supplicò il re che si rimpiccioliva sempre di più all’avanzare dell’orco

«Oooh! Mi ero dimenticato della stupidità degli uomini. Di come pensano di avere sempre una soluzione a tutto, di come credono di poter farla franca anche quando non ci sono vie d’uscita. No mio sovrano, oggi morirete tutti, e questa bella città diventerà nostra»

scaraventò l’uomo a terra e si sedette sul trono poggiando la sua ascia su uno dei due braccioli. Chiuse gli occhi e si rilassò all’udire le urla dei cittadini, le grida di dolore dei soldati e dei lupi che strappavano la carne; dal portone spalancato ammirò le sue schiere invadere le strade, saccheggiare e distruggere tutto ciò che trovavano.

«Che tu sia maledetto Kurzug! Tu e tutta la tua razza! la…» un lupo azzannò il re degli uomini mentre vomitava odio nei confronti degli orchi, Kurzug sorrise e bevve un sorso di grog, immerso nella sua soddisfazione; la bandiera dei Manorossa venne issata sul torrione più alto di Piltus dando inizio all’era degli orchi.

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