Spectre – licenza di ripetersi

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Il 24° capitolo della saga ufficiale di James Bond arriva al cinema: SPECTRE, il quarto film con lo spy-pugile Daniel Craig nei panni dell’agente 007 e il secondo diretto dal regista Sam Mendes che, si rumoreggia, potrebbe dirigere anche il 25° capitolo (Bond 25), annunciato per il 2017.

 

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Il quarto capitolo di Craig racconta le vicende dell’agente segreto subito dopo la morte di M, la quale, riuscendo a lavorare anche dall’oltretomba, lascia un messaggio a Bond, piuttosto criptico, affidandogli un incarico che lo porterà, passo passo, a scoprire a sviscerare una delle più terribili associazioni di villain del mondo, la SPECTRE.

 

Spoiler Alert

Un capitolo che sicuramente ha molto da dire per il ciclo dei Bond, non solo da un punto di vista narrativo ma di intenzioni della mitologia di 007: Spectre si abbatte come un macigno nella tensione verso il futuro, mettendo in scena esattamente il contrario. Un ritorno alle origini, un immenso pasto di cliché e tradizionalismo che segnano l’impossibilità di innovazione del personaggio.

Il Bond si è sempre rifatto a sè stesso, grazie o a causa di dogmi per delimitati, di simbolismi e imposizioni dell‘uomo che non deve chiedere mai, poco intenzionati a dare spessore evolutivo al personaggio, quanto piuttosto soddisfare il desiderio reiterato dello spettatore classico che, a quanto pare, pretende continuamente la stessa storyline. Ma ne siamo davvero così sicuri?

 

Malgrado il Bond di Craig abbia cercato più volte di fare un passo in avanti, dando una spolverata alle logore spalle del mito degli anni ’60, non riesce a scavalcare completamente quell’ostacolo derivato dalla simbologia dogmatica, probabilmente a causa delle stesse rigide regole direzionali dei proprietari del brand. Eppure in casa, con Skyfall e Casino Royale, un po’ d’aria fresca era arrivata; qualche margine di manovra in più, rendendo il personaggio più verosimile e adatto ai canoni cinematografici degli anni 2000.

C’è da dire che la trama è complice del fattore retrò, spingendo in senso contrario e riportando Bond al punto d’origine. Perché malgrado sia a tutti gli effetti un reboot, c’è una grossa componente nostalgica per i personaggi del passato. E credo sia stata proprio questa l’intenzione degli sceneggiatori: giocare con l’effetto vintage della saga.

In realtà, malgrado sia partita a razzo a parlarne malissimo, c’è qualche elemento che mi è piaciuto molto.

 

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A partire proprio dalla scena d’apertura del film, molto potente e descrittiva, nonché ricca di tecnica con un piano sequenza (fake) davvero ben riuscito, in un contesto simbolico che io amo, ovvero il giorno dei morti messicano. Perché il tema del film, dopotutto, è proprio la morte, intesa sia come morte del corpo che come ritorno di fantasmi del passato che si credevano sepolti, magari sotto la neve. Allegoricamente parlando, l’incipit durante il mardi gras è perfetto. Costumi e scenografie spettacolari, uno stimolo visivo che poteva perdurare ma che invece viene subito smorzato.

Subito, perché dopo 15 minuti il film si sgonfia completamente, in un lento e inesorabile vortice di svogliatezza che cresce e si fa spazio, quasi come il regista e tutti gli attori avessero lentamente perso interesse per quello che stavano facendo. Ed è a questo punto che lo spettatore si rende conto di assistere ad una lista infinita di cliché bondiani, accatastati uno dopo l’altro e nei quali non si nota nulla di innovativo. E la sensazione è quella di chiedersi:

Perché mai dovrei rivedere sempre lo stesso film?

Ci sono le vedove sedotte e abbandonate, c’è la classica scena dei gadget da spia e, nel secondo e terzo atto, l’elaborazione di tutti i trope dei cattivoni di 007. Scene di elaboratissimi tentativi di omicidio dell’agente segreto che non portano a niente; monologhi infiniti di spiegazione dei piani malvagi, un susseguirsi di diavolerie senza senso che potevano sicuramente andare bene negli anni ’70 ma che oggi lasciano solo un sorriso storto e un sapore stantio in bocca.

La donzella cretinetta da salvare, con l’esemplare tira e molla sessuale che porterà la donna, ormai completamente ammaliata, a cadere tra le braccia dell’irresistibile James Bond. Ho perfino notato un accenno a uno dei gesti che mi fanno più ridere dei film con Roger Moore, ovvero il suo saluto elegante con la testa mentre è preso a inseguire il cattivo di turno. Gli stessi personaggi ricalcano molto macchiette già viste in passato, non ultimo il mastodontico Dave Bautista (Hinx), che richiama immediatamente il caro vecchio Oddjob. Perfino le location sono le stesse di molti altri Bond del passato: Tangeri, Marocco, Londra, Austria.

 

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Per arrivare fino all’Italia, in particolare Roma, dove assistiamo all’imbarazzante scena di pesante flirt tra Monica Bellucci (Donna Lucia) e il nostro Daniel Craig. La mente va subito alla figura barbina fatta in Matrix, una perenna patata in bocca e una dizione sconcertante segnano l’attività internazionale di una tra le donne più belle del mondo. Di certo la Bellucci s’è sentita a casa nella parte, lo ha sottolineato in più interviste, ammettendo il buon animo di Craig (che pure lui insomma, mica il dio della recitazione) nelle scene erotiche. Rivela anche di essersi rifatta alla femminilità del passato, tirando in ballo Sophia Loren e altri attrici famose all’estero. Una figura femminile, per l’appunto, antica, che probabilmente è quello che il cinema americano apprezza della nostra tradizione cinematografica. Una donna estremamente elegante e fascinosa, che passeggia lenta tra i palazzi ottocenteschi, con un vestito firmato e costosissimo.

 

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Christoph Waltz è il villain della pellicola, il terribile Oberhauser, a capo della Spectre e temuto anche dai criminali più stronzi del mondo. Perfetto nella parte del cattivo, Waltz resta
però imbrigliato nel ruolo, poco sfruttato nella sua eccellente mimica e nella sua classica caratterizzazione del personaggio.

Malgrado questo, è sempre un bello vederlo recitare, sincopato e pazzo, un grande attore che ho apprezzato a prescindere dalla sceneggiatura. A lui tuttavia l’ingrato compito di rendersi ridicolo nella messa in scena dei clichè malvagi che creano un contorno grottesco ad un tipo di cinematografia e simbologia del personaggio che in realtà si prende molto più sul serio dei Bond del passato.

È l’effetto Dark Knight: celebri personaggi pop riscritti in chiave oscura, affannati e tristi, troppo seriosi e concentrati su sé stessi.

Ma se poi fai recitare loro le stesse scenette trash degli anni ’70, il sapore diventa malsano e la visione del soggetto appare distorta, in un contrasto di atteggiamenti paradossali che non va da nessuna parte.

Tecnicamente parlando, Sam Mendes riesce a fare un lavoro in linea con le intenzioni del film, senza spingersi troppo verso alcuna direzione, ma mantenendo perlomeno quello che ci si aspetta: chiara è la predilezione per i tempi lunghi, le scene lente. Poco montaggio serrato, poca musica protagonista, se non quasi al termine dell’azione. Un richiamo cristallino, di nuovo, al cinema del passato.

Perlomeno, per gli appassionati della saga, la visione del film può trasformarsi in una gigantesca caccia al tesoro di riferimenti e input delle pellicole precedenti. Una serie di confronti e analisi del vecchio contro il nuovo, che può in realtà scaturire l’effetto opposto, soprattutto per i fanatici, non solo del genere spionaggio ma, in generare, di chi ha a cuore una certo tipo di film. Andare a rimaneggiare i sacri trope a volte è un’arma a doppio taglio, bisogna esserne in grado e attuare il piano con estrema riverenza. Saperli adattare al tempo, senza renderli ridicoli.

Ed è stato questo il grande errore di fondo del film: una licenza di ripetersi, senza riuscire a innovarsi.
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