The Man from U.N.C.L.E. – Tutto quello che dovrebbe essere Bond

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Il nuovo crime targato Guy Ritchie, tratto dall’omonima serie del 1964, ci porta nel noto mondo delle spie internazionali degli anni ’60, stravolgendo i dogmi e le dinamiche, riuscendo a riscrivere in maniera impeccabile il celebre genere cinematografico e televisivo.

I protagonisti sono due spie eleganti e ironiche: Napoleon Solo (Henry Cavill), l’americano, e Illya Kuryakin (Armie Hammer), il russo. Uno scontro di metodologie professionali, di caratteri e di potere, specchio delle due nazioni alle spalle, in perenne guerra per la supremazia nel mondo dello spionaggio. Un film intelligente, che prende in giro sè stesso e l’intero filone, un omaggio ai Bond ma anche una critica goliardica alla figura dell’agente segreto.

Spoiler Alert!

Malgrado i pochi titoli all’attivo per quanto riguarda la regia, Guy Ritchie riesce con poche semplici mosse ad allietare e intrattenere il pubblico che lo segue. Lo ricordiamo soprattutto per Snatch, il film che lo ha innalzato a regista di culto nel mondo del crime ma anche del pulp.

È uno stile registico che impressiona lo spettatore, furioso, preciso, ritmico, farcito da dialoghi veloci, taglienti e divertenti, in una commistione di sceneggiature ironiche e tecniche registiche moderne ed estremamente caratteristiche.

Ma anche il suo proto-Snatch, Lock, Stock and the two smoking barrels, nonchè la sua (a breve?) futura trilogia di Sherlock Holmes. Pochi ma importanti titoli che creano il contorno stilistico dell’ex marito di Madonna.

 

Senza rivelare troppo della trama, la sinossi sarà quindi: ci sono un casino di persone che si spiano a vicenda e poi arriva il colpo di scena. La trama orizzontale è delle più classiche: ci sono le bombe, i nazisti, nastri magnetici segreti, l’uranio, laggente cattivi con intenti apocalittici.

 

 

 

 

 

Tra classico e profano

I tre protagonisti, Solo, Illya e la furiosa Gaby (Alicia Vikander) si muovono all’interno di varie ambientazioni classiche del cinema di spionaggio, Italia compresa. Roma è infatti una
protagonista ben sottolineata, non solo per quanto riguarda i simboli classici del belpaese ma anche per quanto riguarda il satellite di attori che gira attorno ai tre. Italiani sono anche i villain della pellicola, la ricchissima e prolifica famiglia Vinciguerra che, con i loro intenti maligni, mettono in allarme sia la CIA che il KGB. Non mancano quindi i classici stereotipi della cinematografia bondiana: inseguimenti, sottotrame sexy, doppiogiochisti e abiti supercostosi.

 

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Ma è qui che Guy Ritchie fa un passo oltre quel mondo, non si trattiene infatti in autoironia e paradossalmente verosimiglianza, in quell’idea dell’agente segreto sempre impeccabile, elegante e mai lanciato in situazioni imbarazzanti, se non quell’enorme problema delle troppe donne che se lo vogliono portare a letto.

L’agente segreto di Ritchie è un uomo fascinoso ma, per l’appunto, un uomo. Che commettere errori, fa incazzare la gente e rischia davvero la morte, seppur affrontandola con grande stile. Una spia che non rivela mai la propria identità, come invece suole fare il compare Bond, aggiudicandosi il trofeo di peggior professionista del genere.

Ma la ventata fresca di novità, di critica e di goliardia tipica in Ritchie la troviamo proprio in ambiente ironico. L’agente segreto che prepara la colazione con la traversina da Signora Maria, o che discute in maniera molto animata di moda e di accostamenti di colori. Il russo e l’americano che perdono tempo in missione battibeccando su chi dei due abbia i gadget migliori, una divertente lite tra due bambinoni con vestiti eleganti.

Viene quindi da rabbrividire sapendo che per la parte di Napoleon Solo era stato chiamato anche Tom Cruise (che invece ha declinato per potersi concentrare su Rogue Nation), un attore completamente privo di senso dell’umorismo, il power player dei film d’azione, che avrebbe sicuramente sconvolto il film, rendendolo “un film di Tom Cruise”.

 

 

 

Caratterizzazione dei personaggi

Quando lessi che uno dei due protagonisti era Henry Cavill storsi subito il naso. Conoscendolo esclusivamente per Man of Steel  (e per la mini-parte in Stardust) lo immaginavo come un belloccio cane, usato per fare Superman solo per il mascellone e i muscoli. C’è da dire che considero quel film una cagata pazzesca, sbagliato a livello di scrittura dei personaggi ma anche di tecnica cinematografica, nonchè di noia immensa.

Cavill è invece uno di quegli attori inglesi che, come da tradizione, escono da una cultura teatrale o, meglio, di impronta da romanzo in costume che, se messi nelle condizioni di esprimersi, sanno effettivamente recitare.

È anche un appassionato di egittologia, così, en passant. Qui la parte gli calza a pennello come i vestiti che indossa: disinvolto, raffinato, un personaggio brillante come potrebbe esserlo un James Bond se riuscisse nell’intento di diventare anche solo vagamente auto-ironico.

E parlando di vestiti, Cavill si è detto sollevato dinon avere scene a petto nudo, dovendo quindi fare a meno di tutta quella preparazione fisica che ci sta dietro. Non piangete però, è un bel vedere comunque.

 

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È una prerogativa di Ritchie, dare tridimensionalità a un soggetto, rendendolo in pochi minuti assimilabile e chiaro. In film come Snatch questa qualità viene estremizzata, ma sempre in una modalità piacevole e ricca, rendendo vizi, modi di parlare, atteggiamenti e look parte fondamentale della composizione della trama.

Anche Armie Hammer se la cava benissimo, probabilmente è il mio personaggio preferito del film. La spia russa, quadrata e seriosa, che si abbandona, suo malgrado, ad alcune delle scene più divertenti e impacciate del film.

Lui lo ricordiamo come co-protagonista in Lone Ranger e come “i gemelli Winklevoss” di The Social Network, una parte che ha recitato bene, anche se limitata. In U.N.C.L.E. ha sicuramente maggior respiro, riuscendo ad esprimersi al suo meglio in un ruolo che indossa da dio. E’ stato anche l’unico attore del cast a visionare tutta la serie tv degli anni ’60 prima di recitare il ruolo. Piccola nota: è alto quasi due metri. Quindi no, non è Gaby ad essere nana, è lui ad essere imponente. E direi anche gnam.

E Gaby invece? Una Bond Girl che non lo è nemmeno per sbaglio. Un personaggio interessante e un’attrice che lo è altrettanto. Una parte nella trama che non annoia e non rientra nel classico “contorno” da film di spionaggio. Assieme a Illya mette in scena la componente amorosa del film, in un continuo flirt e figuracce che rendono il tema meno scontato e godibile.

 

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Chapeau anche ai villain, Elizabeth Debicki, Luca Calvani, ma soprattutto a Sylvester Groth nei panni dello scienziato nazista. Jared Harris poco sfruttato, particina piccola, la stessa che tocca a .

 

 

Le tecniche furiose

Sebbene più pacato e a tratti rigoroso, ritroviamo con piacere il montaggio furioso di Ritchie, questa volta supportato ulteriormente da accorgimenti tecnici più incentrati sugli inseguimenti. Zoomate e tilt-shift che ricordano molto i basilari accorgimenti dei film anni ’60, nonchè la musica, cadenzata a ritmo delle immagini, per creare quel prodotto intrattenevole che amiamo.

Questo fa di un regista un creatore di contenuti moderno e all’avanguardia. E, perchè no, il capostipite di un modo di fare cinema più smaliziato, dinamico e innovativo. Passione per il cinema e per le sue capacità, lo stesso attributo che conferisco senza problemi ad un altro pazzofurioso della tecnica, ovvero Edgar Wright; più giovane, più nerd, che si abbandona a generi diversi, ma con la stessa ricercatezza di ritmo e ossessione per il montaggio serrato che fa l’amore col suono. (E che mi piace perfino di più di Ritchie).

The man from U.N.C.L.E. è un crime molto carino, niente di impressionante ma si difende bene, in un genere classico che spesso sembra ormai consumato.

Dopo tutti i James Bond, i Mission Impossible e i derivati di tali, è interessante notare che, se hai idee e sei in gamba nel tuo lavoro, hai ancora molto da dire.

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