Three. Two. One. Go.

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Un raggio di sole mi colpisce l’occhio, facendomi svegliare. Nello stesso istante una fitta mi trapassa il cervello. Infilo la testa sotto il cuscino e continuo a provare a dormire. Passano però alcuni secondi e squilla un telefono. È lì, accanto al letto, è il mio. Rispondo.

«Dove cazzo sei? Dovevi iniziare i test pre-gara due ore fa!»
«Non mi servono i test pre-gara».
«Stronzate di prima mattina, iniziamo bene! Ce la fai ad essere qui entro la partenza?»
«Sì. Dammi mezz’ora e sarò al posto di guida».
In realtà non so neanche dove sono. In un letto, questo è certo. Ed è giorno, altro dato tangibile. Mi metto a sedere, cercando riconoscere quello che mi sta intorno. Una stanza d’albergo, senza dubbio. Di lusso anche. Qualcosa si muove accanto a me. C’è una ragazza distesa tra le lenzuola. Nuda. Davvero niente male, anche se è girata dall’altro lato. Il fisico però è da dieci e lode.

Non ce la faccio ad alzarmi, il mal di testa è troppo forte. Mi serve un aiutino. Sul comodino accanto al letto c’è qualcosa. Pillole varie, una bustina di polvere bianca. Devo essermi dato alla pazza gioia stanotte. Non ricordo niente in realtà. Sono andato per locali con alcuni amici. Stavo ballando, ho incrociato gli occhi con una biondina. Ma quest’altra è mora. No, devo averla conosciuta in un altro posto. Sento il suo profumo, questo sì che mi è familiare. Mi ricordo il suo corpo sotto le mie mani, il suo calore. Deve essere stata una bella nottata.
Afferro due pasticche, in un paio di minuti mi danno la forza di tirarmi su. Mi chiedo se esista qualche pilota di corse antigravitazionali che non si faccia di qualcosa. Stimolanti più che altro, anfetamine. Tanta cocaina. No, non può esistere, mi rispondo mentre vado verso il bagno. Una bella doccia bollente. Stimola la circolazione sanguigna e fa girare tutto più velocemente. Anche quello che ho appena preso.
Esco dal bagno. La ragazza sta ancora dormendo. O facendo finta di dormire. Non che mi importi. Anzi, meglio così. Magari la incontrerò di nuovo e non mi ricorderò di lei. E me la porterò a letto ancora. Sempre che lei non si ricordi di me. Mentre giro per la stanza raccattando la mia roba, lei si gira dall’altro lato, scoprendo un culo da favola. Sì, deve essere stata proprio una nottata da incorniciare. Spero di ricordarmi qualcosa più avanti.
Non so però dove sono ancora. Mi avvicino ad una grande finestra a vetri, scosto una tenda e guardo fuori. San Angeles. Una fogna del genere la riconoscerei tra mille altre metropoli. Bene, sono nella città giusta per fortuna. Afferro il telefono e il resto e mi dirigo alla porta. Do un’ultima occhiata alla ragazza, ora la posso vedere in viso. È molto bella. Chissà perché sarà venuta con uno come me. Dorme ancora, esco senza fare rumore e lascio il cartello “non disturbare” appeso fuori.

Scendo alla reception, il posto è proprio di lusso. Pago il conto avvertendo di lasciar stare la mia amica rimasta nella stanza finché non scende per i fatti suoi. Chiedo anche di mandarmi un taxi, ma l’uomo dietro al bancone, un tipo viscido che sicuramente mi ha riconosciuto, mi dice che ce n’è uno già pronto fuori la porta d’ingresso. Mi infilo gli occhiali da sole, ringrazio ed esco. Il tassista è un tipo un po’ sovrappeso, con un viso rotondo e gioviale. Mi fa salire aprendomi la portiera con un gran sorriso.
«Dove la porto?»
«Dick Deckard Circuit. Ingresso riservato ai team».
«Immediatamente!»
«Quanto tempo ci metteremo?»
«In genere circa mezz’ora. Ma per lei quindici minuti!»
«Gentilissimo».
La vettura si alza a mezz’aria, il tassista si infila nel traffico e inizia a spingere sull’acceleratore. A lui magari sembra di andar forte, ma io tra poco arriverò anche a quattrocentocinquanta chilometri l’ora. Probabilmente lo sa. Anche lui mi ha riconosciuto. Ogni tanto mi lancia un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisore. Io faccio il suo gioco e gli sorrido compiaciuto. Non sono un granché come pilota. Me la cavo, questo sì. Altrimenti non sarei in pista da dieci anni. Di certo però non sono uno che punta al titolo del campionato. Ho vinto solo cinque gare, per pura fortuna. Poi sempre piazzamenti discreti, quando non sfascio la macchina o qualcuno non mi sperona.

Di minuti per arrivare al circuito il tassista ce ne mette diciassette, ma io gli lascio comunque una lauta mancia. Scendo al volo e saluto con un cenno quelli della security, che mi fanno passare senza battere ciglio.
Corridoi, scale, un’area riservata, poi sbuco dall’entrata posteriore del mio box. La mia vettura non c’è. È già stata posizionata sulla griglia di partenza. Il mio capo meccanico mi accoglie con un insulto, con la coda dell’occhio vedo alcuni che si scambiano banconote. Al solito hanno scommesso sul mio orario d’arrivo. Mi metto la tuta di gara con tutta calma. Mancano ancora una ventina di minuti alla partenza. L’ingegnere di pista della scuderia mi guarda scuotendo la testa.
«I controlli pre-gara li ha fatti il collaudatore».
«Buon per lui. Si fa le ossa».
«Ha provato a tarare la vettura sui tuoi standard. Ma non ti posso promettere niente».
«Va bene così».
«Al prossimo ritardo dovrò fare rapporto al boss».
«Come credi. Io salgo in macchina».
Quando si gira, infilo la mano nella tasca della giacca e tiro fuori due pasticche azzurre. Le inghiotto calcolando i tempi. Dovrebbero fare effetto un paio di secondi prima della partenza. Esco sulla pista. Il sole è alto, l’asfalto è caldo. Il rettilineo di partenza è un’immensa scacchiera bianca e rossa. C’è odore di carburante bruciato, ali di pollo fritte e birra. Le tribune sono piene, come sempre. La gente lo ama questo spettacolo. Ogni tanto qualcuno ci resta secco e molti sperano proprio in questo. Negli incidenti, nel sangue. È tutto lì lo show.

Il sorteggio non è andato male, parto dodicesimo su ventotto vetture. Mi dirigo alla mia, una specie di piccola astronave affusolata, dipinta di grigio e arancione, lunga poco più di sei metri. Al centro la cabina di guida, in coda le ali e i deflettori per manovrare. La parte posteriore è occupata dall’ugello del reattore. Sono tutte più o meno simili tra loro. Le distingui dal colore e da qualche particolare.
Passo davanti a quella di E., che parte in penultima fila. I suoi occhi per un istante sembrano fulminarmi, poi il suo sguardo pare attraversarmi come fossi fatto d’aria, come se non esistessi. Fa una smorfia con le labbra, gliel’ho vista fare mille volte. È arrabbiata. Con me forse, mi ha visto prima della partenza e pensa che porti sfortuna. Mi diceva sempre così. O per la posizione in griglia, chissà. Si infila il casco ed entra in macchina. C’è ancora qualcosa tra noi. Da parte mia almeno. Ma lei non mi ha perdonato niente, non ha voluto sentire ragioni, che comunque erano futili. Il nostro noi è deflagrato in una miriade di frammenti che si sono bruciati, senza lasciare la minima possibilità di rimettere insieme i pezzi. Mi volto e mi dirigo alla mia macchina.
Inizio a sentire qualcosa, mi pizzicano le dita delle mani, sento il cervello che comincia  a macinare informazioni. Nella mia mente ripercorro la pista dieci volte in un minuto. Ogni frenata, ogni punto dove poter sorpassare, le curve che mi riescono peggio. I meccanici stanno mettendo a punto gli ultimi dettagli. Il collaudatore mi vede arrivare e sputa a terra. Niente da fare ragazzo, anche per questa volta sono arrivato in tempo. Metto il casco mentre lui si allontana ed entro nell’abitacolo. Per un attimo sento arrivare un attacco di claustrofobia che ricaccio subito da dove era arrivato. Due minuti alla partenza.

C’è del marcio nella mia vita, non lo nego. Le droghe, le ragazze, le amicizie sbagliate, le relazioni buttate al vento per questi ed altri motivi. Un bel contratto e il marcio di cui sopra addolciscono la pillola. E poi ci sono le corse. Lo farei anche gratis. Sì, cazzo, è la migliore delle sostanze l’adrenalina. Infilarsi in una curva a gomito a trecento all’ora per sorpassare quello che ti sta davanti. La vista annebbiata dall’accelerazione gravitazionale. Non vedere niente per tre interi secondi e venirne fuori senza un graffio. Senti il boato del pubblico sopra il rombo del tuo motore e spingi più che puoi per arrivare in fondo. E quando ci arrivi non vedi l’ora di poter rientrare in quel buco di cabina e rifarlo.
Si accendono i semafori e io attivo il reattore. La vettura viene attraversata da un fremito e inizia a borbottare. Anche chi mi sta davanti fa lo stesso. Resto ipnotizzato dai riflessi azzurri del combustibile che brucia. Il calore fa tremare l’aria tra me e l’altra macchina. Il supporto si sgancia e sento la mia piccola astronave galleggiare in aria. Afferro la cloche e do un’occhiata agli strumenti, i comandi sono tarati a dovere. Il ragazzo al solito ha fatto un lavoro coi fiocchi.
Io invece ho calcolato bene i tempi? TRE. Qualcosa mi attraversa il cervello, come una scossa. DUE. Tutto sembra rallentare, i dettagli si fanno nitidi, vedo già la prima curva. UNO. Mi si stampa in faccia un sorriso stupido, i calcoli erano esatti. GO. Si balla.

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