La stirpe di Menok – 1

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Collegato l’ultimo cavo d’alimentazione, alzo lo sguardo e la luce dei riflettori interni mi abbaglia per pochi istanti, poi la vista ritorna e comincio a mettere a fuoco tutti i noiosi dettagli di una giornata interminabile.

In lontananza lampeggia la luce blu di un laser, braccia automatizzate sopra la mia testa trasportano pezzi di ogni sorta verso i punti di differenziazione e ad attenderli robot smistatori aprono, smembrano e riorganizzano ogni componente delle macchine che gli passa avanti.

In tutta l’officina siamo soltanto due umani.

Il mio turno finisce tra qualche minuto eppure mi sento ancora così lontano dalla maledetta libertà  da voler quasi scappare all’istante, come un ragazzino fremente pochi momenti prima del suono della campanella.

Ma ecco che proprio mentre sto rimettendo la testa in quel pannello di alimentazione, il fatidico, assordante segnale della sirena, arriva rompendo il rullare dei nastri trasportatori.

Alzo la testa dal pannello di quel ferro vecchio, stendo un secondo la mia povera schiena martoriata da un turno di lavoro di 10 ore corrispondente a un terzo del ciclo giornaliero standard per le Novae e mi avvio verso l’uscita dell’officina.

Le pesanti porte automatizzate all’ingresso si stavano aprendo, accompagnate come sempre dal silenzioso sibilo saltellante del dispositivo di controllo risalente forse alla “Prima Generazione”. Uscendo tiro una boccata d’aria buona, Mike “il pazzo” mi passa a fianco, imprecando come al solito contro chissà  quale demone nella sua mente.

Il ciclo di finto-sole sta finendo e la città comincia a illuminarsi come un’immensa decorazione natalizia; piccoli fuochi fatui che si protraggono verso l’oscurità sconfinata dello spazio e abbaglianti insegne brillano nel buio come piccole stelle lontane, serpeggiando ai miei lati e arrampicandosi sempre più in alto, fino a chiudersi ad anello sulla mia testa.

Comincio a fumarmi una sigaretta, blando trofeo di una pesante giornata passata a sistemare sonde AMU di carotaggio e per l’estrazione mineraria, sonde vecchie, risalenti quasi a mezzo secolo prima, quando le AMU erano il meglio sulla piazza: alimentazione autonoma, garantita da pannelli solari auto-riparanti e un sistema AIU 2.6 per cervello, in grado di gestire il grosso dei guasti autonomamente, il tutto protetto da un guscio in titanio a forma discoidale. E con le sei braccia di supporto, più le due operative pareva di vedere un granchio gigante, ma con meno zampe.

Sulla strada per casa mi fermo da Jin Feng per mangiare un piatto di ramen. Jin ha un piccolo chiosco lungo la decima, a circa 2 minuti a piedi da casa mia, senza posti a sedere se non quattro sgabelli malandati e un banco incassato nel chiosco stesso che pare urlare ai clienti “mangia il tuo cazzo di ramen e libera il posto.” «Vecchio il solito ramen per me.» Il telesync mi avvisa di un collegamento in attesa; «… e una birra per mandarlo giù, grazie…»

Jin annuisce senza parlare e prepara la mia ordinazione. Prende la birra dal frigo e me la mette davanti, poi carica nella sua AliPrint, i preparati alimentari. La macchina in trenta secondi stampa tutte gli ingredienti necessari alla preparazione del piatto, sarebbe possibile anche stamparlo direttamente insieme alla ciotola, come fanno in molti posti per risparmiare su tante altre spese, ma Jin è uno all’antica ed è convinto che non sia appetitoso in quel modo e poi vengo qui proprio per questo motivo, mi piace guardare qualcuno cucinare ancora.
Intanto io ne approfitto e accetto il collegamento.

L’interfaccia neuronale del telesync entra in funzione, il firewall inizia il filtraggio dei pacchetti in entrata controllando che nessuno mi stia hackerando il cervello, il chip impiantato nella mia corteccia prefrontale, comincia la traduzione dei miei pensieri inviandoli a sua volta. La conversazione ha inizio con una stimolazione percettiva di calore, piacevole e rassicurante, poi arriva un «ciao» e il mittente diventa chiaro, Ivone.

La mia cara, dolce Ivone. Le tette più belle in tutti il quarto sistema, non capisco perché continui ad occultare i suoi collegamenti, ma per un visino come il suo posso sopportare.

«Come stai Marcus? Devo esserti mancata molto visti i tuoi primi pensieri.» È divertita, soddisfatta forse, il telesync me lo fa percepire chiaramente; dopotutto è una donna e per quanto vogliano negarlo, adorano che un uomo sbavi loro dietro.

Il piatto di ramen fumante viene piantato sotto il mio naso, il profumo del brodo mi sale su fino al cervello e io lo assaporo quasi molecola per molecola, infine affondo le mie bacchette nella portata.

«Ehi mi stai ascoltando?! Siamo collegati! Sento che mi stai ignorando per quel merdoso ramen che ami tanto! Come vuoi dirò a X che nn ti interessa l’offerta di lavoro…»

Sentendo quelle parole, mando giù il boccone in un lampo e per poco non mi strozzo per risponderle «potevi dirlo subito che parli per conto di X, Ivone» e lei, «grazie per la considerazione, veramente gentile, me ne ricorderò in futuro» la sensazione piacevole di calore e soddisfazione di prima, si interrompe e percepisco chiaramente la sua irritazione, è aspra.

«Comunque, abbiamo trovato una possibile Reliquia, probabilmente lanciata durante il Grande Esodo. Il problema è che onestamente non sappiamo come, “trattarla”. Sei interessato?»

Mando giù un’altra bella parte del mio ramen e lascio il resto, scolo la birra e rispondo con un secco «Si, certo che  lo sono…».  Esco dal chiosco lasciando dieci dollari sul banco, e guardo verso l’alto.

Davanti ai miei occhi la sconfinata grandezza della “Nova Prima” si estende immensa per dieci chilometri in profondità e centocinquantasette chilometri di circonferenza, con il punto opposto a me, lontano cinquanta chilometri sopra la mia testa. I poderosi propulsori a fusione nucleare, legati attorno al toro geometrico, sembrano imponenti morse pronte a stritolare tutto, così come sono, sorretti a pochi metri dal resto della struttura da titanici campi mangnetici. «Di che genere di Reliquia parliamo Ivone? Sicurezza?

Quelle spesso contengono reperti valutatissimi al mercato di Izuna.» Mentre parlo, tengo d’occhio i passanti, nessuno potrebbe mai riuscire a captare messaggi di un telesync: primo perchè telepatici e secondo perchè la comunicazione utilizza qbit e correlazione quantistica per criptarli e inviarli al ricevente in tempo reale; ma il mercato di Izuna è il più oscuro e fottutamente pericoloso, luogo del Sistema Solare, un pozzo dal quale non si esce vivi se non si sta attenti e non si sà con chi, quando e dove parlare.

Ma proprio mentre una sventola rossa, mi passa davanti lanciandomi un’occhiata maliziosa che non so perchè, mi allontana dai brutti pensieri, Ivone parla facendomi venire i brividi. «E’ una Time Machine, Marcus…»

 

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