Aspettando l’ultimo round – 1

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Non esiste onore senza una coscienza immacolata, bisogna essere belli, alti, svegli e sempre coraggiosi. In un certo senso, il mondo ti fotte.

Ti entra dentro quando ormai sei convinto che ce l’hai fatta, ti congratuli con te stesso mentre lui ti inocula il suo bacillo di dolore e speranza. Sei fregato, praticamente tutti i giorni dal primo all’ultimo. E così una volta di più, e così anche la sera prima.

Non c’è orgoglio in una bottiglia vuota; il vino è nemico dell’uomo e io l’ho sempre sfuggito come il vigliacco che sono. E le poche volte che mi sono lasciato ghermire lui c’è andato giù pesante. Eppure quella mattina non faceva male, non era proprio così doloroso come mi era sembrato sulle prime : zigomi troppo sporgenti, occhi scuri, labbra sottili e romagnole mi avevano traviato di nuovo; mi avevano ucciso e resuscitato, avevano lacerato la mia carne e l’avevano tersa nettendola con la loro saliva calda ed umida, gelida e monotona.

Persino menefreghista e malpagata. Una storia durata una notte, una passione lenta ed eterna sfumata nel giro di poche ore, parole marinate nelle lenzuola e lavate via col sole del mattino.
Anche se pioveva, come spesso succede da queste parti nel bel mezzo della pianura padana.

Tirando su la tapparella fui assalito da un grosso dubbio, non ricordo quale ma so che era universale, martellante ed impreciso; il cielo color collo sporco era una bella cornice per quel dubbio così strano, i fazzoletti usati accanto al letto, ora sotto ai miei piedi, erano invece dei perfetti, silenziosi osservatori. Non sapevo dove fosse finita la mia amante occasionale, se ne era andata, probabilmente aveva creduto alle parole di due giorni prima dette da qualcun altro. Non mi capitava molto spesso di essere ospite dei corpi femminili e sinceramente iniziavo a fregarmene davvero poco delle loro scenate, dei loro candori virginali, delle loro maialate sotto la doccia e quantaltro. Così almeno credevo.

Tutto era oookèi, quella mattina di novembre. Sorridendo di malavoglia avanzai a piccoli passi verso il bagno, evitando di contorcermi in pose post-orgiastiche per sgranchirmi le ossa.

Non so perché, so solo che quella mattina non lo feci, ed ancora stordito non riuscivo affatto ad avvertire il freddo che si impossessava del mio corpicino addormentato. Mi lavai e mi vestii in fretta saltando qualche passaggio, insaccai i jeans ammericani e la felpa misto-generazionale e mi sentii di nuovo giovane, lesto, scattante come quando studiavo antropologia, una dozzina di mesi prima. Anarchia, Mania, Malattia, Antropologia. Tutte le cose brutte finiscono con –ia, è irritante che esistano cose simili in un’università. Alle volte anche università sembrava finire con –ia.

Non ero pronto ad affrontare la realtà, ma uscii di casa lo stesso inciampando nella spazzatura che i miei coinquilini avevano deposto accanto alla porta; sorrisi di nuovo, bestemmiai in modo soft e poi presi in mano il sacchetto dicendo qualcosa in latino. L’avevo letto il giorno prima in biblioteca. Niente d’importante, comunque.

Bologna mi aveva di nuovo tutto per sé; una volta buttata la spazzatura già non mi restava più idea di cosa fare. Non avevo soldi, i miei mi passavano ancora la paghetta e i miei ventisei anni
iniziavano ad essere troppi, stanchi e quotidiani, almeno finché non sarebbe arrivato il numero ventisette, che malgrado numerosi tentativi restava comunque disperatamente vicino. E sempre dispari.

Ero lì, c’ero e non sapevo cosa fare; non era colpa mia, credevo che qualcuno mi stesse usando ed osservando e mi giravo di scatto, ogni tanto, con l’aria furba di chi ha capito qualcosa.

Camminando mi sforzavo di fissare un punto all’infinito, per dare l’idea alla gente che mi vedeva che stessi pensando verità assolute davvero importanti, o che fossi un duro, o che avevo una brutta storia alle spalle, che la vita, una ex, il mondo, la pubblicità o semplicemente qualcosa mi aveva incattivito ed ora cercavo solo un’opportunità per ricominciare daccapo.

Ero maledettamente stronzo quando camminavo così, tutto preso dal mio insostenibile atteggiamento da uomo vissuto. Lo faccio ancora, sapete. Ma solo nel fine settimana, a tempo perso.

Dovevo sforzarmi di vedere le cose in maniera più serena, in fondo avevo fatto l’amore (sì, l’amore) con una sconosciuta poche ore prima, potevo sentire la mia virilità goderne ancora per qualche attimo, come se mi fosse piaciuto sul serio. Forse lei era già tornata dal suo ragazzo in lacrime di pentimento e dannazione, e chissà, magari il tipo mi stava già cercando col suo nugolo di amici stempiati e sottomessi, borghesi, inutili, pronto a fare giustizia sommaria.

Già mi vedevo a combattere contro orde di nemici incazzati, a sguainare la spada in un crescendo di pianoforti e salumi bolognesi, mentre buddismo, Kung fu e lampioni rossi facevano capolino dalla strada accanto, sotto la pioggia, accanto al ristorante cinese. Ovviamente, ancora rincoglionito e pensieroso, finii col pestare una cacca di cane, ma solo di striscio. Ero a mio modo molto fortunato. Solo di striscio.

Mi bastò sbattere il piede contro il marciapiede un paio di volte ed ero di nuovo il ragazzo di prima, agile, sveglio, bagnato e pulito. Quella mattina avevo preso l’ombrello ma mi rifiutavo di usarlo; da qualche tempo credevo che la gente che girava con l’ombrello aperto sotto la pioggia fosse già morta e fingesse di non saperlo; morta come l’asfalto a cui apparteneva, morta come chi sognava vincite al superenalotto, come chi giocava a bowling e credeva che i film comici fossero, in fondo, divertenti.

Era così che vivevo, ogni giorno mi sforzavo di combinare qualcosa ma finivo sempre per addormentarmi nelle stesse lenzuola di flanella, la sera; baravo con me stesso e mi dicevo che

presto le cose sarebbero cambiate, presto tutto avrebbe avuto un senso e il mio lento peregrinare sotto la pioggia l’avrei visto come una preparazione, un allenamento tantrico in previsione della prova finale.

In sostanza, aspettavo il momento di gloria, la rivelazione, il gol allo scadere, l’esplosione del mio furore inespresso. Aspettavo una fine oltremodo grandiosa, una degna conclusione di quella vita per iniziarne un’altra migliore, nuova. Semplicemente diversa. Aspettavo, detto fra noi, l’ultimo round.

C’era poco o nulla da fare, avrei dovuto inventare qualcosa, una ragione valida per sopravvivere anche quella mattina; continuavo a trascinarmi tutto preso dai miei mille pensieri quando finalmente un’illuminazione spontanea ed improvvisa squarciò il mio cogitare donandomi una nuova speranza, una sorta di nascita indolore, come un parto cesareo all’altezza delle sopracciglia.

La Feltrinelli. È lì che avrei perso (o guadagnato, a seconda dei casi) un po’ di tempo; in un’estasi euforica ed assente mi sarei cullato nelle tiepide stanze della libreria, assaporando l’odore delle parole scritte e il sapore della carta appena appena stantìa.

Imboccai così le vie del centro camminando come potevo verso le due torri bolognesi, l’una alta e slanciata e l’altra rozza e disastrata, doloroso simbolo della differenza tra i potenti e la gente comune che guarda canale5 e dice “VIP” almeno una volta al giorno. L’insegna (verde su rosso, ottimo accostamento, e parlo in particolare del rosso) mi strizzò l’occhio sussurrando “sei arrivato, campione” ed entrai.

Non c’era quasi nessuno; la cassiera con gli occhiali e l’aria stanca, il signore attempato col giornale sotto l’ascella, la studentessa di scienze politiche e il nerd non mi notarono neppure e così, felice della mia pancetta, fiero del mio essere bruttino, della mia noncurante mediocrità e della mia trasparenza focomelica trotterellai tranquillo verso la zona Bukowski.

Mi piaceva pensare, giovane ignaro qual ero, che Buk l’ubriacone e Stanley Kubrick si fossero incontrati in paradiso dopo la loro dipartita, e che ora giocassero a carte per tutto il tempo. Anche adesso, mentre fuori diluviava. Avevo visto tutti i film di Stanley e avevo letto tutto o quasi del vecchio Henry Charles, tranne le poesie; le trovavo troppo scialbe, erano cacca rispetto ai romanzi. Ripassai con estrema lentezza la lista dei suoi libri cercando quelli che mi mancavano con la compassata allegrezza dell’Alex di Arancia Meccanica, ma proprio mentre mi soffermavo sulla copertina di “Taccuino di un vecchio sporcaccione” qualcuno starnutì dietro di me. E mi toccò una spalla.

“Heilà!”

Era già troppo tardi, dovevo voltarmi. Persi la mia aria serafica in un lampo e mi girai sui talloni preparando un grosso sorriso plastico e fantozziano.

Santo cielo. Santo, santo santo, sia benedetto il tuo nome. Fammi crescere i denti davanti te ne prego bambino Gesù. Chiara. La rivedevo ora dopo qualche tempo; l’evoluzione aveva compiuto su di lei un miracolo, da Cioè a Cosmopolitan nel giro di pochi mesi.

E dire che ricordavo ancora il nostro unico bacio, rapido, imbarazzato e troncato dal suo apparecchio odontoiatrico in stile liberty. Affrontai la situazione da vero deficiente, arrossendo come un povero idiota, abbassando lo sguardo e balbettando le prime 10 parole standard.

 

 

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