Il cane di Claudia

red head

Panni sporchi da tirare fuori dalla valigia, altri da lasciare sul treno. Ho  la barba lunga, gli occhi rossi ed un viso smunto, sono stanco, irrimediabilmente stanco della teoria dei giochi e non ne posso più della mia facoltà, costretto come sono a tentare invano di tirarmi via dai fuoricorso mentre perdo anni utili, intento a leccare via lo zucchero dal panettone, a mangiare meno, a fare palestra e a dar fastidio alle ragazze.

È davvero disgustoso fingere alternativamente solitudine e compagnia, amare di volta in volta attitudini e monotonie diverse, darmi con tutto me stesso ad una causa per 10 minuti e poi via, a ricominciare daccapo, in un’altra stanza. Leggo 4, 5 libri al mese solo per tenermi in vita, mentre una moltitudine di eventi raccapriccianti mi prende a sberle sotto le coperte, davanti al frigorifero, persino dentro la doccia o sul terrazzo.

Il kebabbaro dietro casa ormai mi conosce per nome, bevo tanto e male e odio le sciccherie, preferisco la roba di sotto marca, svenduta, che si vende confezionata ancora dentro gli scatoloni poggiati a terra senza via di scampo.

Eppure è l’epoca dell’apevitivo, delle ex che spuntano fuori ad ogni angolo, degli amici con le borse sotto gli occhi e dei secchi di lacrime alcoliche. Siamo così irrimediabilmente sottomessi ad ideali ingiusti che non ci poniamo nemmeno il problema di ritrovare la verità, infilzati come siamo da messaggi subliminali atroci, assurdi, meravigliosamente stupefacenti nella loro essenza mefitica e disastrosa.

Durante la giornata ci fanno da sottofondo i rumori delle altre case, le bestemmie, la televisione, la sarabanda di Händel, il progressive e i latrati dei cani.

Di notte invece tutto tace e ci sentiamo invincibili, eterni, mentre i nostri corpi così lontani dalla perfezione patinata sono percorsi da una lenta scarica di agonia sinaptica, e con gli incisivi fuori dalla bocca, con la lingua poggiata sul labbro inferiore, inganniamo noi stessi regalandoci gli ultimi istanti di beatitudine bambinesca parlando del più e del meno, fingendoci già adulti, rimpiangendo di non essere nati 10 anni prima o 10 anni dopo, di non capire sempre le parole di Guccini, di aver perduto gli attimi, i minuti e le ore dietro ad una speranza decadente che ci ha lasciato da soli per correre via lontano, per esaltare la vittoria (già grandiosa!) di qualcun altro, per umiliarci e renderci più vicini e più simili ai vermi della terra che non agli uomini.

Scopriamo già adesso il pentimento, il rimpianto e la malvagità che ci porteranno ad essere unici, aguzzi eppure sordi al richiamo delle nostre anime corrotte oggi solo parzialmente.

C’è ancora del sangue forte nelle nostre vene ; è il sangue dei nostri padri che perdura e non vuole arrendersi, che combatte al posto nostro e che noi annacquiamo confezionando pigrizie e voluttà semplici nei locali dietro l’angolo a pochi passi da dove viviamo, irrimediabilmente presi da un’estetica vagheggiante, da sogni rivelatori, da fotografie mosse e da capelli ricci e neri, ancora una volta e poi ancora, fino a quando tutto si trasforma, una volta ancora, in un classico oblio di luci calde per poi ricominciare daccapo, inutilmente, la mattina dopo.

La nostra vita è solo una riedizione in chiave ottimistica delle Termopili spartane : alla fine andrà tutto bene. Ma per il momento tutta la nostra euforia si riduce a fugaci congestioni di capezzoli color castagna e ad un breve stordimento momentaneo, e afferrare le emozioni non ci interessa abbastanza quanto viverle ammortizzate senza dar loro alcun peso, perchè avere un orgasmo è una cosa ma averlo senza cambiare l’espressione del viso ne è un’altra.

Stringere la mano al Primo Ministro non ci sembra poi così esaltante e spesso siamo costretti a rintanarci sotto una calda coperta di indifferenza convincendoci di far parte di un intero popolo che non usa la sua forza ; una forza troppo grande per essere compresa, una forza che distruggerebbe ogni credenza, ogni certezza, ogni equazione sociale, se fosse usata, se fosse impressa alla società.

Ma sarà vero? Eppure tra noi insabbiati c’è questo patto segreto di non belligeranza col resto del mondo : siamo anche noi utili, a modo nostro, nel preservare l’abominio esistenziale che affonda le sue radici nel cemento urbano. Ma ora non è il momento di pensarci.

 

L’autunno è freddo, freddo come non lo è mai stato prima. Sali in macchina, gira la chiave, tira la catena : un altro ottobre è arrivato senza preavviso e devo darmi da fare ancora una volta. Sto per rituffarmi in pasto a quella stessa Bologna che mi ha masticato a lungo senza mai digerirmi del tutto, e mi sento pronto, ancora adatto a piombare nel marasma quotidiano di situazioni “tutto fumo e niente arrosto” e cioè di canne, di discorsi sconclusionati, di apparizioni poco convincenti, di nuovi messia dagli occhi azzurri con le basette lunghe.

Sono giovane in fin dei conti e posso vestirmi da vivo ancora per un paio di semestri, tirerò dritto fino alla meta, e non mi piegherò, non io, non diventerò uno qualsiasi : no cazzo, no. Gliela farò vedere. Certo. Del resto adesso sono qua in treno, intontito e randagio come un vecchio barbone, che mi do da fare.

Cos’altro? Quest’anno andrò a lezione, e seguirò gli ultimi corsi che mi separano dalla laurea : finalmente sconfiggerò il Cielo, umilierò l’Inferno, scanserò una volta per tutte l’eterno Purgatorio durato fino ad oggi ben 4 anni. 6 esami al termine. 6 esami e gli ultimi 100 metri da scavare a mani nude nella terra per uscire dalla prigione della mediocrità o per finirci dentro per sempre : è presto per cantare vittoria, devo ancora ingoiare fango per qualche altro mese ma ormai è già tutto pronto, nella mia testa.

Ottobre è arrivato ancora, è di nuovo qua col suo sorriso vigliacco che promette molto e regala poco; è di nuovo qua con l’ortica tra i denti pronto a baciarmi sulla bocca, è qua con i bisogni dei cani sparsi e strusciati sul marciapiede, da via Zamboni a via Saragozza e più avanti ancora.

È di nuovo alla stazione come tutti gli altri a farsi beffe della mia condizione svogliatamente tragica, a salutare il mio ritorno a Bologna con una ingloriosa salva di ventate gelide mentre fuori dal finestrino piove duro. Guardo di sfuggita tutto lo scompartimento, fisso per un secondo i miei occhi nello specchio sopra il sedile di mezzo e metto in moto un inutile meccanismo, una sorta di flusso di coscienza incontrollabile ed asintotico. Bum.

Mi smarrisco e perdo la mia posizione. E allora che faccio, penso, prendo la valigia semichiusa e scavalco la signora lato corridoio che tanto scende a Milano, o almeno questo è quanto mi ripeto quando mi accorgo che mi sta guardando malissimo, e corro, inizio a correre per saltare in braccio alla morte, per farle vedere che non temo, che non sono più soltanto uno scimmione, che sono pronto, che sono pronto cazzo, che..

Scendo dal treno e involontariamente mi battezzo con un segno della croce volontario, o viceversa perché non lo so ancora ; mi guardo attorno vergognoso e scappo via a prendere il bus sotto la pioggia perenne di questi luoghi, pioggia che rende abbastanza coreografica la situazione e fa sembrare meno osceno perfino il mio naso, e posso far finta che non coli perché piove, posso fingere che nel suo mezzo metro di estensione ci sia una ragione, e sotto questa benedetta pioggia anche io ho una motivazione, sono un emigrante, un cavaliere, un protagonista, sotto la pioggia posso indossare il mio impermeabile e sotto l’impermeabile porto una pistola, o una spada, o una penna e dietro posso sentire il mio cuore battere un po’ più deciso, perché tanto ormai sono a Bologna, e nulla più può fermarmi.

Ormai sono a Bologna, e nulla più può fermarmi, armi vere, pallottole vere. Già perchè ormai sono pronto, tutto il resto sono solo stupidi, stupidi, stupidi dettagli. È ora di affrontare la fine, è ora di caricare l’orologio e far battere gli ultimi secondi (Den! Den! Den!), è il momento di contare fino a dieci e di veder stramazzare al suolo il mio avversario, chiunque egli sia.

La vita, i colleghi, le donne, le mie ossessioni : stavolta non sono io quello a terra, stavolta sono ancora in piedi e gli altri giacciono sul fondo del mare e che si fottano. Se sono arrivato fin qui è perché sono rimasto su ancora per non dare soddisfazione, e adesso non ci sono più mezzi termini, ormai le mie tempie sono al lavoro e il mio corpo è una locomotiva sul punto di esplodere, una molotov che cade dal 4° piano, un fuoco, una carica, un grido.

Perchè adesso non c’è più tecnica, non c’è più arte né pastura : si tratta solo di dare ascolto alla voce. Di prestare orecchio a quella maledetta voce che ho sempre evitato di ascoltare e che ogni volta aveva indovinato, smentito, predetto.

Oggi è di nuovo nelle mie orecchie quella voce, come una vecchia radio che detta ancora la verità, quella verità che raramente viene incamerata dalle mie trombe di Eustachio e finisce per essere imbrigliata da qualche tuba di Falloppio di troppo, e allora spesso mi avvicino per sentire meglio, e non è poi così male. Non sono poi così male. Loro. Donne. Puoi inumidirle col suono della voce o stordirle con un semplice movimento del bacino. Puoi elevarle al rango di stelle o puoi lasciarle cadere, da sole, nella fossa che si scavano, da sole, pensando di essere orgogliose e vincenti. Da sole. Donne. Puoi colmarle di attenzioni, respirare il loro respiro e mangiare i loro corpi, puoi abbracciarle e credere nella comunione totale per un intero istante, puoi baciarne le palpebre e godere della loro cecità o della loro vista. Soltanto per quello che sono. Donne. Puoi scacciarle sperando di non rivederle mai più, puoi chiamarle amore o troie o tutte e due le cose assieme specie in un momento di estro sessuale, di autoesaltazione, mentre con una mano sul loro collo e l’altra sul fianco accompagni ritmicamente la natura nella direzione che vuoi tu. Solitamente su e giù. Donne.

Quest’anno ne starò alla larga. Già, me lo sono ripromesso. Niente ragazze, niente follia : niente da fare. Non mollerò proprio ora. Basta con lei, basta con la sua amica, basta con il sesso e la cucina etnica, basta dover scegliere se comprare detersivo o preservativi anallergici perché è fine mese e i soldi non mi bastano più, basta con quell’altra, basta, basta con i glutei e le guance, con il fard, il rossetto e quelle improponibili gonne a girococca.

Basta con il Salento e gli occhi verdi e la pelle bianca. Basta anche con le sbronze e con i funerali per amori mai nati, basta con i tradimenti che non ho mai elargito ma che ho ingoiato a manciate, basta con gli amici pronti a consolarti aspettando che venga il loro turno di essere consolati, basta cazzo, basta. Basta perfino con i rimorsi, con le strette al cuore e i pianti, basta con la pancia, basta con le mani tra i capelli e con il respiro fiacco, con gli occhi gonfi e con le cazziate da parte dei miei. Basta allora, basta.

Un anno intero senza complicazioni, un anno per dare una svolta alla mia vita e per trionfare unico e solo sul destino, sul caso, sulla fatalità che mi ha sempre lasciato sconfitto e solitario. Prendo il 21 per andare a casa e per tutto il percorso, dalla stazione fino a via andrea costa, mi ripeto la stessa frase. Si tratta solo di afferrare la marea giusta. Andrà tutto liscio. Certo.

Salendo urto il seno di una signora in sovrappeso e lei mi manifesta il suo grosso disappunto sbattendo due volte il tacco per terra; accendo il lettore di mp3 e mi siedo mentre l’autista fa un paio di finte studiate e poi riparte sul serio. Alzo gli occhi al cielo ed improvvisamente mi rendo conto che la verità è l’apice di una parabola, e non fai in tempo a vederla che un istante dopo è già un ricordo, e fa più caldo di prima nella sauna dell’autobus, e a parole non si può spiegare e a te non resta che rimbalzare ancora senza cercare di attutire l’impatto, senza cercare di ridurre i danni. Così ogni volta che ti fai male diventi più consapevole fino a quando la consapevolezza ti bracca e ti stordisce perfino per strada, ti toglie il fiato e tu continui a respirare, ti toglie la fame ma tu perseveri e ingoi cibo, in attesa di un nuovo tonfo o di un nuovo scorcio di luce, fino a quando anche quello perde di significato e ti ritrovi punto e a capo al principio di un nuovo stadio evolutivo. Bum.

Torno in me e soppeso con le sopracciglia i pedoni che attraversano la strada, sbircio un paio di sederi prima di accorgermi che sono maschili e poi mi butto nella contemplazione diretta del traffico, e annuso la dignità del barbone AiutamiTiPrego che si fa largo tra le macchine in fila al semaforo, e ho un lieve conato di vomito bloccato sul nascere da un inspiegabile odore di salsedine. Salsedine, ad ottobre. A Bologna. Sopra un autobus.

Un attimo dopo giuro a me stesso di non guardare più film di fantapolitica e di abbonarmi al Carlino, di dimenticare ¾ delle cose che so e di ricominciare a vivere come un umano qualunque, senza preoccuparmi di quanto siano larghi i binari del treno, e di quanti pallet possa caricare un container, e di quanti container possa caricare una nave da trasporto, e del perchè cazzo mi domando tutto questo. Il caldo irreale che c’è dentro l’autobus mi scazzotta il fisico distrutto dal viaggio, e catalizza una prima reazione involontaria dovuta al DNA trasformante che circola nell’aria urbana color monossido.

Ristabilisco un paio di relazioni d’ordine e decido che comprerò dei jeans nuovi non appena avrò dei soldi e cioè mai ; mi annuso le spalle e definisco un nuovo concetto di sudore mentre raccolgo la valigia e mi avvio alla porta. Ancora due fermate e ci sono, poi saranno soltanto dettagli. Una ragazza stile dark sale sul bus in compagnia di un cane di

piccola taglia, un maltese credo, oppure un cucciolo un po’ denutrito di Basset Fauve de Bretagne. Preferisco pensare che sia un maltese, forse perchè la maggior parte della gente crede che questi cani siano originari dell’isola di Malta, quando invece provengono quasi certamente da Melita, in Sicilia. La gente pensa sempre cose stupide. È ovvio che è un maltese. La ragazza porta degli stivali di cuoio, una gonna ascellare nera e una maglietta, nera anche quella, con la scritta “NOT GOD BUT SATAN” che risalta in viola acceso.

Distrattamente mi soffermo sui suoi polpacci e risalgo fino all’incavo delle cosce, poi mi accorgo che mi sta fissando e mi calo nella migliore interpretazione di un Humphrey Bogart annoiato e neanche vagamente interessato, sbuffo un po’ e mi metto a guardare la zip dei miei pantaloni che nel frattempo si è avvicinata al mio naso di qualche impercettibile millimetro. Ma la mia interpretazione è davvero perfetta, lei ci casca, molla il cane a terra e si avvicina. Soltanto quando è a due passi da me noto che ha i capelli rossi (tinti) e mi scappa un sorriso senza motivo mentre lei si avvicina e somiglia sempre di più a Mary Jane Watson. Mary Jane Watson, la fidanzata dell’UomoRagno. La mia fermata è la prossima.

«Bel cane» dico io.

«Grazie» risponde lei, e si passa una mano tra i capelli di rame, fissandomi la zip. La conversazione langue e faccio per accarezzare il cane, che per tutta risposta mi scansa la mano e inizia a darsi da fare con i miei pantaloni. Avrò davvero bisogno di quei jeans nuovi, adesso.

La tipa lo scaccia via con un calcetto ben assestato, il cane molla uno stronzo di media grandezza per l’emozione e la ragazza sbotta a ridere di gusto, e così facendo mette in mostra una dentatura che definire bianca è un eufemismo, che al confronto la neve puzza di fumo, che sarei pronto a giurare d’averla già vista in qualche fumetto manga, lei e i suoi canini così aguzzi e sospettosamente candidi.

Mi chiede scusa e io uccido sul nascere la battuta «veramente credevo fosse stato il cane» mordendomi la lingua con gli incisivi e farfugliando un «..figurati» di circostanza ; stringo la valigia, premo il bottone per prenotare la fermata e l’autista autistico come per una sorta di stimolo orofecale mai superato molla una frenata allucinante davanti al Dall’Ara facendomi finire praticamente sopra la darkettona, con sospetta frattura di un paio di costole del maltese (frigna proprio come un maltese, confermo) che guaisce come se lo stessero scannando. Salto giù, mi volto verso la rossa che a occhio e croce è clitoridea e le chiedo, al volo

«Come ti chiami?»

ma le porte si chiudono e lei non riesce a sentirmi e si avvicina al vetro con la faccia. Allora butto la valigia a terra e inseguo il bus che riparte con lentezza studiata e sforzandomi di mantenere un aspetto decente disarticolo la bocca per sillabare meglio la domanda afona :

«Come ti chiami?»

Dall’altra parte del vetro vedo un visetto smarrito che di colpo si colora di sicurezza e un paio di labbra che non me la sento di descrivere che scandiscono lentissimamente il nome «C-L-A-U-D-I-A». Claudia.

Sorrido, torno sui miei passi e recupero la valigia. Ci rivedremo, Claudia. Sicuro, Claudia. Magari una notte verrai inseguita da 3 sconosciuti e per puro caso mi incontrerai all’angolo di una strada buia e solitaria, e allora ti ricorderai di me, e allora non ci sarà bisogno di parole perchè capirò tutto al volo e tirerò fuori il bokken dall’impermeabile per difenderti. Infrangerò la promessa che ho fatto al maestro sul letto di morte, Claudia, ma lo farò per amore, lo farò per te, e la profezia e tutto il resto.

Li farò fuori tutti in meno di un minuto, neanche Myamoto Musahi potrebbe fare di meglio. Poi sarà il momento della gratitudine e del premio per l’eroe, Claudia. Ma non ora. Ora devo andare a casa a disfare la valigia sennò i sughi pronti che mi sono riportato da casa si scongelano e al telefono non avrei il coraggio di confessarlo a mia madre. Non ora, Claudia. Ora devo correre e infilarmi sotto il getto tiepido della doccia e lavarmi via l’odore delle FS, la puzza del treno della speranza, dell’ennesimo IC Freccia Adriatica che mi ha sballottato per 350 km e poi mi ha scaricato a Bologna, nel bel mezzo di una guerra psicologica tutta personale.

Apro il portone, scanso l’ascensore, mi carico alla meglio la valigia sulla mia spalla abruzzese, mancina e in disuso, e inizio a salire le scale col sorriso ebete di chi ha appena compiuto la sua leggenda personale. Infilo la chiave e mi ritrovo in casa mia. Da solo, ad ottobre. Devo pagare ancora l’affitto da agosto, sarà un lungo mese.

Mi riapproprio della mia stanza quando d’un tratto l’idea della doccia è meno fluida ed appetibile e ho appena il tempo di riporre nel freezer i sughi pronti che mi ritrovo sul letto a fissare il vuoto, a fissare il soffitto che d’un tratto cambia colore e diventa blu, marrone, e infine nero. E allora, soltanto allora, proprio in quel preciso istante capisco che mi sono addormentato con la valigia da disfare, e con i vestiti ancora addosso.

Sogno una figura strana. Claudia. No, non è Claudia. È il suo cane che mi insegue per il cortile di Ingegneria, e poi mi sommerge con una cagata epica. È il cane di Claudia. Ma per fortuna al risveglio non ricorderò niente.

 

 

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