Il protagonista indisponente

scrivere

Quella poltrona di pelle, in piena estate, era davvero scomoda. Faceva sudare e faceva troppo rumore, e lo innervosiva più di quanto già non lo fosse. Jack aspettava impaziente il suo editor, e ad ogni secondo gli sembrava di soffocare. La porta si aprì e per mezzo secondo gli arrivò una ventata di aria fresca.

«Che caldo boia!», esordì Clarence. «Scusa, ma ho il climatizzatore rotto. Come va Jack?» disse, stringendogli rapidamente la mano sudata.
«Molto bene… allora, che ne pensi?», andò al sodo Jack. Il suo manoscritto era già lì, sulla scrivania di Clarence. Era il suo terzo romanzo, ancora una storia di fantascienza. Ci aveva messo l’anima scrivendolo. Clarence aprì la finestra, ma entrò solo altro calore. Si sedette, accese una sigaretta e guardò Jack con uno sguardo indagatore.
«Amico, che ti succede?», chiese l’editor.
«Che intendi?», rispose con apprensione Jack.
«Ti dirò la verità, e te la dirò tutta in una volta. Non voglio prenderti in giro…»
Il tono di Clarence era paterno, ma accusatorio. Amichevole, ma fermo. Non presagiva niente di buono, ma Jack non capiva cosa ci potesse essere di sbagliato nel suo romanzo.
«Jack, io mi aspetto grandi cose da te, e ci stai facendo guadagnare molto con i tuoi due precedenti libri. Ma questo, Jack… che roba è questa?»
«Cioè? Io… io non ti seguo…»
«Questo ‘La legge di Avalon’… insomma, è uno scherzo? Te lo dico senza mezzi termini, questo non te lo pubblichiamo proprio».
Jack si sentì come se fosse stato investito da un tram, come se un peso massimo gli avesse rifilato un gancio che avrebbe stesso anche un rinoceronte, come se… Clarence continuava a parlare intanto:
«È banale Jack! I dialoghi sono senza senso, la trama è inconsistente… per non parlare del finale! Ma che diavolo avevi in testa?»
«Io… io non capisco… penso di aver scritto qualcosa di buono… comunque posso sistemarlo, posso…»
Ma Clarence lo interruppe subito:
«No, senti, facciamo così. Questo lo cestiniamo proprio», e così dicendo prese il manoscritto e lo sbatté con una certa violenza nel cestino a lato della scrivania. «Ora torni a casa, ti prendi un paio di giorni di vacanza e poi, bello tranquillo ti rimetti a scrivere. Ma ricomincia da zero. Consideriamolo un incidente di percorso».
«Ci lavoravo da un anno e mezzo…»
«Lo so, lo so! Diremo che ti sei preso un anno sabbatico e che ora sei nuovamente al lavoro. Nel mentre facciamo uscire qualche ristampa dei tuoi vecchi romanzi, che tirano ancora. Vai tranquillo ok? Mi aspetto presto tue notizie. Ma stavolta aggiornami man mano che scrivi, va bene? Così evitiamo queste perdite di tempo!»
Clarence si alzò e Jack lo imitò. Si sentì spinto fuori, ma era come fosse in un sogno. Come fosse sospeso sull’orlo di un burrone. Si voltò verso Clarence, che gli scoccò un sorriso tanto bianco quanto falso. Un sorriso da film horror. Gridò di terrore.

Balzò seduto sul letto svegliandosi di soprassalto, zuppo di sudore dalla testa ai piedi. Erano due settimane che sognava quel discorso, ogni notte. Lo ossessionava aver fallito. Lo ossessionava perché non si capacitava di aver scritto quella porcheria, come sosteneva Clarence. Perché il suo romanzo lo aveva letto e riletto e, cazzo, gli sembrava eccezionale! Aveva richiamato il suo editor, gli aveva pregato di ripensarci. Ma nulla da fare, non c’erano versi per farsi pubblicare il libro. Allora si era arrischiato a cercare un secondo parere. Aveva inviato un paio di capitoli a Ilary, anch’ella autrice. Il commento era stato lapidario: “spero che questa merda non l’abbia scritta tu”.
Lo stesso genere di commenti era arrivato da un sito web dove si pubblicavano racconti amatoriali. Anche qui un paio di capitoli in forma anonima avevano suscitato solo reazioni oltremodo negative. C’era chi gli aveva intimato di non scrivere più, che no, non era proprio il suo mestiere. Lui, che aveva venduto almeno dieci milioni di copie in tutto il mondo. Ancora un volta era inutile provare a dormire, non ci sarebbe riuscito. Si alzò e si diresse in salotto, dritto dritto al mobile bar.
«Dove cazzo è finito quel maledetto whiskey?!», gridò cercando alla rinfusa tra le bottiglie vuote. Lo aveva comprato la sera prima, mentre tornava a casa. Era sicuro di non averlo neanche aperto.
«Scusa ma mi sono servito da solo. Sai com’è, dormivi e non volevo svegliarti!»
Jack fece un balzo di lato. C’era qualcuno seduto sul divano al centro della stanza, qualcuno che gli voltava le spalle. Sul tavolinetto c’era il whiskey aperto, e un paio di bicchieri già pieni.
«Accomodati amico, non sta bene bere da soli. Fammi compagnia!»
Jack girò attorno al divano. Si diede un paio di schiaffi in faccia, perché non credeva ai suoi occhi. Si sedette di fronte al suo ospite.
«Tu non puoi essere reale…», balbettò.
Seduto sul suo costosissimo divano di pelle, bianco come la neve, c’era un tipo davvero singolare. Aveva un paio di guanti di pelle blu elettrico, e una corta giacca dello stesso colore. Pesanti stivali neri e una maglia dai colori cangianti che contrastava con un paio di calzoni grigi e rovinati. Dal volto sembrava non avesse più di trent’anni, ma i capelli erano color argento, a spazzola e rasati ai lati. Un occhio era verde, mentre l’altro giallo, e aveva qualcosa di strano. Jack sapeva cosa. Perché aveva davanti una persona che non esisteva, seduto di fronte a lui c’era Hunter Orval, il protagonista de ‘La legge di Avalon’.
«Alla tua salute, vecchio mio!», disse Hunter, sollevando il suo bicchiere.
«Tu non esisti, cazzo. Tu… ok, sono diventato pazzo. Chiamo il 911».
«Non chiamare nessuno, ti rinchiuderebbero. Bevi, che ti fa bene!»
Jack si prese il volto tra le mani, si stropicciò gli occhi e, quando guardò di nuovo, Hunter non era più al suo posto.
«Sono qui», disse. Si era seduto accanto a lui, e gli stava allungando il bicchiere di whiskey. Jack cedette e lo prese. Per un istante sentì il contatto con le sue dita. Qualsiasi cosa fosse, un sogno o pazzia, sembrava dannatamente vero. Hunter si alzò e tornò di fronte a lui, mentre Jack ingurgitava in una volta tutto il contenuto del bicchiere, per riempirlo di nuovo.
«Ok. Okokokokok. Stiamo calmi. Mi sto solo facendo una bevuta con il protagonista del mio romanzo. Che non dovrebbe esistere. Ok. OOOOOCCHEIIII!!!».
«Senti, Jack, vecchio mio. Se magari stai calmo veramente fai un favore a entrambi. Mi stai mettendo agitazione. E sai bene che a me la gente nervosa mi crea nervosismo! E quando mi innervosisco…»
«Va bene, va bene», rispose Jack, e respirò profondamente cinque o sei volte.

«Non male questo whiskey, ma con quello che guadagni potresti permetterti di meglio. Anche questa casa… assumi un arredatore, farebbe miracoli!»
«Ma fatti un po’ i cazzi tuoi…»
Jack era visibilmente contrariato dalla situazione, e prima di poter in qualche modo metabolizzare il fatto che stava dialogando col protagonista del suo romanzo, in ogni dettaglio identico a come se lo era immaginato, si era scolato già tre quarti di bottiglia. L’ultimo sorso però se lo stava finendo Hunter, che si alzò in cerca di qualcos’altro nel mobile bar. Tirò fuori una bottiglia tequila e riempì di nuovo i bicchieri.
«Bene, a questo punto cerchiamo di inquadrare la situazione. TU, che non dovresti esistere, sei seduto sul mio divano. A scolarti tequila…»
«Chi scola qui sei tu, vecchio mio!», puntualizzò Hunter, senza essere ascoltato.
«…e a darmi suggerimenti sui miei fottuti mobili. Eppure tu sei una mia creatura, tu sei un parto della mia mente, tu esisti solo nel mio romanzo!»
«…di merda…»
Stavolta l’intervento fece il suo effetto. Jack, che mentre parlava si era alzato e stava passeggiando nervosamente, si bloccò. La bocca spalancata, la mano contratta in un gesto, si voltò a brutto muso verso Hunter:
«Cosa cazzo hai detto?»
«La verità, Jack, vecchio mio. Il tuo è un romanzo di merda». La risposta era flemmatica, senza il minimo indizio di sarcasmo. Era totalmente serio.
«E tu che ne sai scusa?»
«Che ne so? Mi chiede che ne so!» Hunter scoppiò in una grassa risata, sputacchiando un po’ di tequila sul tavolino. Si alzò e si spostò nell’attigua cucina, iniziando a rovistare nella dispensa.
«Non hai qualcosa tipo cereali, o patatine fritte? Meglio le patatine!»
Il caldo era soffocante, così Jack spalancò qualche finestra. Una brezza fresca lo investì in pieno volto. Rimase così, a godersela, per diversi minuti, ad occhi chiusi. Finché uno sgranocchiare maleducato lo riportò alla realtà: Hunter aveva trovato un barattolo di Pringles.
«Quindi tu, protagonista del mio romanzo, lo ritieni una merdata?»
«Cosa? Ah, beh, ci sono pochi dubbi. Fa piuttosto schifo», rispose Hunter, masticando un pugno di patatine.
«Mh. Eppure, a mio modesto parere è il migliore che abbia mai scritto. E poi tu non esisti, perché dovrei tenere conto della tua opinione?»
Hunter rimase in silenzio per diversi secondi. Sembrava spiazzato, ma dopo qualche istante replicò:
«Mettiamola così, vecchio mio, facciamo un ragionamento logico. Che ne dici?»
«Ci sto!»
«Dici che la mia opinione non conta perché, o io non esisto, sono in sostanza frutto della tua mente, oppure potrei esistere, ma in ogni caso sarebbe paradossale da parte mia affermare che il romanzo che mi vede protagonista fa schifo. Intendi questo giusto?»
«Esatto…»
«Bene, io ti rispondo così. Se io fossi reale, allora avresti un’ulteriore opinione negativa del romanzo. Se io non esistessi allora dovresti preoccuparti solo dell’opinione già espressa da almeno due persone. Che concordano con la mia. Anzi, di più, se fossi frutto della tua mente in sostanza, allora quello che ti sto dicendo rifletterebbe il tuo inconscio: e anch’esso ti dimostra che il tuo romanzo fa schifo. Ci siamo fin qui?»
Jack non capiva dove Hunter volesse andare a parare, ma stette al gioco:
«Sì, più o meno…»
«Ottimo. Prendiamo però in considerazione quanto ti sto dicendo. Esisto? Non esisto? Che importa. Ma perché denigrare il romanzo che mi vede protagonista?»
«Esatto… perché dovresti?»
Hunter finì di mangiucchiare patatine e si alzò, liberandosi delle briciole sul tappeto. Tirò fuori un pacchetto di sigarette rosse e ne accese una. Emettevano un fumo giallognolo e acre. Ne offri una a Jack, che rifiutò. Si diresse alla finestra e riprese:
«Vedi, vecchio mio, ci sono degli autori o aspiranti tali che sostengono che le storie che scrivono esistano al di là della loro immaginazione. Che siano già lì, pronte per essere raccontate. Che sia tutto già esistito in un qualche anfratto della loro mente o quel che è, come fossero dei semplici osservatori che riportano quanto hanno visto. Ci sei?»
«Mah, io non credo a queste stronzate filosofiche…»
«Ti capisco, ma mettiamo per un momento che sia proprio così. Che ci siano infiniti universi dai quali, per un motivo o per l’altro, gli scrittori attingono, inconsciamente anche, per dare vita ai loro romanzi. Ipotizziamo che ai protagonisti dei romanzi piaccia essere al centro dell’attenzione, e che influiscano, in un modo o nell’altro, sul giudizio che il singolo lettore dà sulle vicende, su come sono state descritte, eccetera…»
«Aspetta, aspetta! Che intendi per ‘influire sul giudizio’?», chiese Jack con una certa apprensione.
«Beh, vedi, quando un lettore legge la tua storia, in realtà lo scrittore, salvo rari casi, si eclissa. Sta leggendo le emozioni del protagonista, si immedesima in quello che gli accade, nei suoi guai, nel suo punto di vista. Diventa il protagonista. E così possiamo influenzare il suo giudizio sull’opera. Se ci riusciamo, gli piacerà il romanzo. Altrimenti lo riterrà, per un motivo o per un altro, di scarso livello».
«Più o meno ho capito cosa vuoi dire. In sostanza stai dicendo che sei tu a determinare se un romanzo piacerà al lettore o meno».
«A conti fatti è così che funziona. Siamo noi protagonisti a determinare il futuro di un’opera letteraria. Ma…»
«Ma, cosa?»
«Ma se non volessimo che la nostra storia venga raccontata?»
Avete presente quando vi tirano una secchiata di acqua ghiacciata all’improvviso e per qualche istante vi manca il fiato? Jack provò le stesse sensazioni. Si lasciò sprofondare sul divano, attendendo la rivelazione.
«Vedi Jack, vecchio mio, a non tutti i protagonisti piace che la loro storia venga sbattuta sullo scaffale di una libreria, pronta per essere acquistata. Chiamali come vuoi: non collaborazionisti, dispettosi, indisponenti. Ti chiedi mai il perché tanta gente scrive ma pochissima viene pubblicata? Perché tanti scrittori arrivano per caso a mettere il naso in una storia, ma sono pochi i protagonisti che accettano la celebrità. E allora fanno leva sulle persone giuste al momento giusto e si fanno pubblicare».
«E tu… tu saresti uno di questi protagonisti indisponenti?»
«Più o meno amico mio, più o meno. Sai, a non tutti piace la notorietà. È vero, hai scritto una storia bellissima, lo ammetto. Ma ti sei mai chiesto se a me andava che venisse raccontata?»

Jack era ormai piuttosto ubriaco. La verità, o presunta tale, non aveva fatto granché effetto sulla sua autostima. Anzi, si sentiva ancor più smarrito. Come poteva il protagonista di una storia influenzare il giudizio di chi la leggeva? Non capiva. E non voleva capire. Voleva solo bere. Ma Hunter intervenne nuovamente.
«Senti, Jack. Capisco che la cosa possa sembrarti strana e inquietante. Ma c’è un perché alla mia presenza qui».
«Farmi ricoverare in un ospedale psichiatrico?»
Hunter rise: «No, no! Lungi da me! Vedi, tu meritavi una spiegazione, e io non sono poi così indisponente come tanti altri».
«Che vorresti dire?»
«Ti sto dicendo che posso suggerirti una storia, che non mi vede protagonista, ma prende spunto da me».
Jack posò il quinto bicchiere di tequila sul tavolino, si stropicciò gli occhi e guardò attentamente quel bizzarro individuo che bighellonava nel suo salotto. Stava albeggiando.
«Sono tutto’orecchi!», disse con una marcata nota di sarcasmo.
«Ti ricordi come finisce il tuo romanzo? Parti da lì. Senza però fare il mio nome. Stai sicuro che Clarence non se ne accorgerà e verrà fuori una grande storia. Ho già parlato con i suoi protagonisti, vai sul sicuro. È gente che vuole farsi conoscere. Ci scapperà anche un seguito, garantito!»
«Ora ho il dubbio se sto sognando, se sono pazzo o semplicemente ubriaco…»
«Sei un po’ in tutte e tre le situazione probabilmente, ma se ti siedi al computer e inizi a scrivere vedrai che ho ragione!»
Hunter tirò per una manica Jack fino alla scrivania, gli accese il computer e gli fece partire il programma di videoscrittura. Gli mise le mani sulla tastiera e le dita iniziarono a viaggiare da sole, come tante altre volte. Jack scrisse un paio di pagine e poi si fermò. Si accorse che Hunter era lì, accanto a lui, e leggeva ogni singola parola.
«Beh? Che ne pensi?»
«Eccezionale, vecchio mio! Straordinario! Sarà un grandissimo romanzo! Ora scusami, ma ho un gran sonno. Mi stendo sul divano!»
Bastarono pochi secondi perché iniziasse a russare. Jack era sicuro che gli sarebbe bastata una dormita, e quel tipo sarebbe svanito così come era riapparso. C’era un fondo di verità in quello che gli era accaduto? Chi lo poteva dire. Tornò a rileggere quelle poche righe che aveva scritto, e si rese conto di esserne più che soddisfatto. Si alzò e tornò in camera da letto, lasciando il computer acceso…

Un cadavere faceva bella mostra di sé sul selciato del vicolo, tra un cumulo di spazzatura e la porta posteriore di un night club. Guanti blu elettrico e giacca dello stesso colore, una maglia cangiante e pantaloni sdruciti. Due pesanti stivali neri. Il detective Santiago stava annotando tutti i particolari sul suo taccuino, mentre il suo collega, Johnny Ryuko, frugava nelle tasche del cadavere.
«Nessun documento José, e ha le impronte digitali cancellate. Scommetto che anche quelle della retina sono manomesse. Sarà stato un contrabbandiere o qualcosa del genere».
«Non lo identificheremo mai allora…»
«Meglio così. Regolamento di conti tra malviventi. Chiudiamo il caso e andiamo a mangiare qualcosa. Offri tu?»
«È mercoledì? D’accordo, offro io».

Questo racconto è stato pubblicato originariamente sul blog personale dell’autore.

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