La Illustre Compagnia dello Ginepraio 2/2

Ginepraio II

 

 

 

III – Di selve, ruine et ceffi colli cappucci.

 

«Ahi, lo cornuto ha lasciato lo cammino principale per ingressar nello bosco» disse Valdemaro dopo un paio d’ore che erano in viaggio.«Lo seguiamo?»
«Ché, ti spaventa la selva?» chiese Galgante.
«Non mi aggrada quello cammino, Galgante… Conduce a uno villaggio in ruina. Dice che li suoi abitanti fossero adoratori dello Dimonio, e per questa ragione lo villaggio fue colpito da una maledizione.»
«E a me mi portiede la ciconia!» rispose Galgante «Grande e grosso stai dietro a cotali scemenze. Lo sentiero non porta ad altro loco, indi non abbiamo elezione.»
E a un trotto lento, quando ormai calava la sera, lasciarono la strada principale e si addentrarono nel bosco.
Dopo qualche decina di minuti cominciarono a intravedere una radura con quello che rimaneva di alcune case. Le pietre che affioravano dal terreno e le travi cadute erano state annerite da un incendio ed erano ormai quasi interamente ricoperte da licheni rampicanti.
«Infrattatevi colle bestie fuori dallo sentiero, che io procedo
quattamente in ricognizione» disse Renzo. E sparì tra le ombre.
Non erano passati nemmeno dieci minuti che già era di ritorno.
«Et allora? Contaci ciò che visti» disse Valdemaro.
Renzo si portò un dito alla labbra e, afferrati per le braccia i suoi amici, li trascinò ancor più addentro alla boscaglia.
Quando tutti e tre furono lontani dal sentiero, cominciò a raccontare a bassa voce ciò che aveva visto.
«Poco più addentro vi sono le ruine della antica chiesa che fu sconsacrata.» Mormorò. «Et colà vi è uno nero ceffo, con lo volto ammascarato e uno copricapo a punta, qual quello de uno boia, che guardia una botola nella pavimentazione. Et poscia son arrivate delle genti, alcune addobbate con lo medesimo vestiario dello guardiano, altre con vestimenti normali. E tutte ingressarono nella botola. Et nella vicinanza vi son legate diverse cavalcature. Una dozzina, perlomeno.»
«Et perchè parli sottovoce? Ti hanno scorto e seguito?» chiese Valdemaro.
«No, ma lo mio pensiero è che altre genti debbano arrivare, et essendo lo cammino uno soltanto, meglio assai sarebbe che nessuno adivinasse la nostra presenza.»
«Che facciamo hora? La cosa ha cangiato,» disse Valdemaro «non si tratta di malmenare uno solo fellone, bensì una dozzina. Quasi sarebbe più facil tornare addietro et robar a un nobile in armatura lo premio della giostra».
«L’è questione di principio oramai, oltre che di pecunia.» Rispose Galgante. «Lo appestoso straniero mi è in forte antipatia.
Ma esprimete pure lo vostro pensamento, e poscia decideremo lo da farsi».
«Se vi è cerimonia, vi saranno addobbi e maggior pecunia,» disse Renzo «lo bottino sarà maggiore».
«Ma anche lo periglio!» disse Valdemaro.
«Ma non se ingressiamo come gente della loro. Una volta addentro, decidiamo. Lo nero ceffo chiede una parola di passo… et io la udii!»
«Ma ne sei certo?» chiese Valdemaro.
«As-so-lu-ta-men-te» rispose Renzo.
«Va bene, ma ingressiamo ultimi… Aspettiamo che altri non arrivino et poscia andiamo. Prefiero che niuno mi arrivi alla terga» disse Galgante.
E così si misero ad aspettare. Ed effettivamente almeno un’altra decina di persone passarono dalla stradina dirette all’interno del paese.
Quando ormai nessun altro arrivò in un intervallo di più di mezz’ora, con le redini dei cavalli nelle mani, il terzetto si diresse verso la chiesa.
Come aveva raccontato Renzo, una figura vestita di nero con cappuccio e mantello e un bastone in una mano si ergeva solitaria in quella che una volta era stata l’abside.
La costruzione pareva aver resistito meglio delle altre sia all’incendio che al passar del tempo.
Anche se non rimaneva niente del tetto e la parte frontale era pressoché distrutta, quella posteriore era rimasta in piedi quasi del tutto, e le mura e le massicce colonne facevano ancora mostra di sé.
«Questo affare non è per nulla di mio aggrado. Uno ceffo incappucciato, ruine e la luna plena… Non mi garba per nulla.»

sussurrò Valdemaro mentre i tre si dirigevano con un sorriso falsissimo verso l’uomo mascherato.
«Hai paura dello Dimonio, Valdemaro? Lo Dimonio no existe!» gli disse Galgante.
«Se existe Iddio debe de existere pure lo Dimonio!»
«Ecco, appunto! Te Iddio l’hai veduto? E’ una invenzione delli preti per riempissi le tasche e le panze a spese dello popolo» disse Galgante.
«Oppure esiste solo lo Dimonio e non esiste Iddio» intervenne Renzo.
«Lo quale facto spiegherebbe diverse cose…» concluse Galgante.
I tre oramai erano a pochi metri dall’incappucciato, e videro che
quello che rimaneva dell’antico altare era stato fatto ruotare per rivelare una botola. Dalle condizioni della botola e delle pietre attorno si deduceva che fosse lì da sempre e che doveva essere scampata all’incendio.
«Alto! Niuno passerà sine la mia permissione!» esclamò con tono minaccioso l’incappucciato puntando loro il bastone. «Declamate lo motto di passaggio!»
Renzo si fece avanti baldanzosamente, affiancato da i suoi amici che tentavano di ostentare la massima tranquillità.
«Ei Sa Tutto» disse con convinzione Renzo.
L’incappucciato lo guardò in modo perplesso.«Cos’è? Un ischerzo?» disse. Valdemaro e Galgante guardarono Renzo in modo dubbioso.
«Ei Sta Sotto?» disse Renzo, con fare titubante.
«All’a..» tentò di gridare l’incappucciato, prima che un pugno guantato in ferro lo colpisse alla mascella e lo mandasse al suolo privo di sensi.
Valdemaro si voltò poi imbestialito verso Renzo, per scoprire che Galgante l’aveva già afferrato per il collo e lo stava strozzando.
«Menzognero e canaglia, sei uno periglio per li sodali tuoi!» diceva.
«Lassamelo che lo voglio menare io al fedifrago!» cominciò Valdemaro tirando lo sventurato per un orecchio.
Alla fine tutti e tre caddero per terra e il piccoletto finì per darsela a gambe levate.
«Torna indrio! Malcacato, vile et purulento figlio di una scrofa saracena!» disse Galgante.
«Solo se promettete di non alzare le mane!» rispose Renzo seminascoto dietro una colonna.
«E come no! Promettìmo, Promettìmo! Perdonaci, solo fu uno minuto di perdimento di controllo.» disse Galgante spolverandosi la casacca.
«No te creo! Iura sopra la tua madre! E tu pure Valdemaro!»
«Iuramos, iuramos…» disse Valdemaro spalancando le braccia.
Renzo si avvicinò con fare sospettoso e, quando fu a portata, volarorono vari calci all’indirizzo del suo posteriore.
«Le mane no, però li piedi eccome!» disse Valdemaro ridendo.
«Vili et menzogneri» disse Renzo e di nuovo scappò cercando riparo. Ma gli altri due smisero di considerarlo del tutto e si misero a discutere tra loro.
«Et hora?» chiese Valdemaro.
«Et hora seguitamo con lo piano. Infrattiamo lo tipo nello bosco e andiamo a vedere lo che c’è addentro la botola» disse Galgante.
«Va bene, però liberiamo le loro cavalcature, perché se dovesse andar male qualcuna cosa, non possano seguirci» disse Valdemaro.
«Parmi una ottima idea» rispose il compare.
E i due si misero a liberare tutti i cavalli, tranne i loro, e a farli fuggire nel bosco, mentre Renzo scrutava da un nascondiglio.
Con delle redini legarono l’uomo privo di sensi e lo buttarono nella boscaglia.
Poi si avvicinarono alla botola.
«E te, citrullo, che fai? Vieni o resti qua a pascolar li cavalli?» disse Galgante rivolto a Renzo.
Quest’ultimo, con aria offesa e in silenzio, si diresse verso i due amici che se la stavano ridendo.
Quando furono riuniti, Valdemaro alzò la botola, e un forte odore di umidità e putrefazione uscì dalle profondità della terra.

 

 

 

IV – Della importanza di farsi li cazzi propri

 

Le scale erano ripide, in pietra, ben illuminate da delle torce alle pareti. Dopo una discesa di una decina di metri terminavano in un corridoio con pendenza regolare che continuava a scendere.
«Che fattura è mai questa? Li muri sono lisci assai e non si vede fessura alcuna» disse Valdemaro.
Le pareti infatti sembravano fuse o scavate in un unico blocco di pietra.
Il gruppo continuò nella sua discesa per alcune centinaia di metri..
Finalmente giunsero a una porta circolare in legno massiccio, che recava ai bordi una iscrizione in caratteri latini.
«EIS-SA T-THOT» cominciarono a leggere a stento.
«Eisa Thot! Ecco lo che dicean quelle genti!» disse Renzo.
«Non ti percuoto perché ammanco di tempo! Hora stai cheto!» sbottò Valdemaro.
“Eisa Thot conosce la porta. Eisa Thot est la porta. Eisa Thot est la clave et la guardia della porta” recitava l’iscrizione.
«Mah, che sia uno fabbro?» disse Renzo.
Lentamente e cercando di non far il minimo rumore, aprirono quel tanto che bastava per poter sbirciare al di là.
La porta dava su una caverna circolare di grandissime dimensioni, il cui pavimento andava rialzandosi dai lati al centro, dove si trovava una specie di pozzo o vasca di forma circolare. Al lato di questa vi era un grosso monolite obliquo, sul quale era legato un uomo con cui una donna pallidissima stava facendo sesso.
«Læ! Læ! Sha ‘nza he» ripeteva quest’ultima, ansimando.
Due dozzine di persone assistevano alla scena intonando litanie in una lingua sibilante e sconosciuta.
Dalla parte più distante dall’ingresso, sopra un altare, vi era un idolo di oro massiccio a forma di pesce con due rubini per occhi.
«Casi casi le chiedo se posso fare uno giro anco io!» sussurrò Renzo.
«Avete veduto quanto oro?» disse Galgante «E tutti stanno solo guatando li due che fottono…»
«Ma come? Non vedete nulla di strano?» disse Valdemaro.
«A parte li due che scopano come ricci e la montagna de oro?» chiese Galgante.
«Sì, non li vedete li ceffi, tra cui l’arciere, che hora stanno sine vestimenta?» disse Valdemaro.
«Ih! È verdade! Tutti grigi dietro e bianchi davanti, come lo pescato!» disse Renzo.
«E hanno le branchie sotto li polmoni… e nulla in medio alle gambe» disse Galgante.
«Vedi che c’era di mezzo lo diabolo!» mormorò Valdemaro.
«Diabolo o no, lì v’è una montagna d’oro… L’arraffiamo? La attenzione di tutti è rivolta soltanto a quelli due.»
In quel mentre la donna si alzo dal suo compagno, prese un falcetto, e lo evirò.
Dopodiché, mentre l’uomo si dibatteva e urlava dal dolore, prese i genitali che colavano sangue e sperma e li gettò nella vasca.
«Eisa Thot! Che questo seme ti renda gravida! Læ!» gridò.
«Læ!» ripeterono in coro i fedeli.
Poi, prese un coltello e recise l’arteria femorale e la giugulare dell’uomo, il cui sangue dapprima sprizzò con violenza e poi scese colando lentamente dalla pietra nella vasca. L’uomo emise dei gorgoglii orribili per un po’ e poi si zittì.
Per sempre.
«O mater mea! Sono folli furiosi!» disse Valdemaro impietrito.
«Non v’è dubbio alcuno» concordò Galgante.
Nel mentre un altro uomo, anche se visibilmente scosso, prese di propria volontà il posto del primo, il cui cadavere venne gettato a un lato.
La donna recitò quella che sembrava una preghiera, poi ricominciò il rituale di accoppiamento.
«Sarebbe meglio alzare li tacchi e regressare indrìo, sodali» disse Valdemaro.
«Ma no! Io posso arraffare lo bottino sin che s’accorgano della mia presenza,» disse Renzo «tanto son tutti a guatare la pretessa».
«Però sei certo?» chiese Valdemaro.
«Certissimo!» rispose Renzo.
«Allora vai, che noi ti copriamo lo tergo, et creiamo uno diversivo alla bisogna» disse Galgante.
E furtivamente Renzo cominciò a dirigersi verso il tesoro, con Valdemaro che si appostò dietro il pubblico vicino alla porta e Galgante che rimase seminascosto con l’arco teso e una freccia in cocca.
Quando la pretessa interruppe il suo amplesso per recidere i genitali alla sua vittima, Renzo cominciò a sollevare lentamente l’idolo per metterlo in una casacca usata a mo’ di borsa.
Tutti e tre dovettero distogliere lo sguardo dalla scena, le urla del disgraziato che si stava dissanguando facevano torcere loro lo stomaco.
Renzo era sbiancato e sudava freddo, ciononostante riuscì a portare a termine il suo compito senza essere scorto dai presenti, morbosamente concentrati sulla sanguinosa cerimonia.
Ma, mentre stava tornando sui suoi passi ed era quasi arrivato alla posizione di Valdemaro, l’acqua della vasca cominciò a ribollire.
Il canto dei presenti aumentò di volume, mentre la pretessa gridava a squarciagola, le braccia sporche di sangue scuro, caldo e denso.
E poi, un abominio di dimensioni enormi si erse dalla vasca.
Dalla testa di pesce, da cui colava acqua mista al sangue delle vittime, due occhi vitrei emanavano una profonda e aliena malvagità.
Il corpo antropomorfo e squamato era dotato di sei paia di mammelle di carne bianca e molliccia.
Con le braccia possenti si sollevò oltre i bordi della vasca, poi aprì la bocca dotata di due doppie file di denti marci, e urlò.
La stanza si riempì del fetore immondo di putrefazione proveniente dalle sue interiora.
Tutti i suoi fedeli si inginocchiarono, mentre Valdemaro e Galgante rimasero pietrificati dall’orrore.
Renzo, agghiacciato e incredulo, rimase a bocca aperta a guardare la mostruosità uscita dalle profondità della terra.
La casacca gli cadde dalle mani e urtò il suolo con un rumore sordo.
Decine di teste si voltarono all’unisono.
E i fedeli, con i volti sfigurati dalla rabbia e dall’odio, fecero per avventarsi sul ladro.
«Qui vi vedo e qui vi piango! Alla pugna!» gridò Valdemaro, estraendo la spada bastarda e cominciando a menare fendenti.
L’abominio uscì dal pozzo e cominciò a dirigersi verso gli intrusi, quando una freccia lo colpì in un una pupilla.
Più di un metro di legno di frassino attraversò dapprima un occhio, poi l’altro, per uscire portando con sé il secondo bulbo oculare, che rimase appeso per il nervo ottico al volto della creatura.
Pazzo di dolore, lacrimando sangue e completamente cieco il mostro cominciò a calpestare e ad attaccare chiunque capitasse alla sua portata.
La pretessa venne afferrata e stritolata, il rumore delle sue ossa che si riducevano in frantumi risuonò in modo sinistro, monito del futuro prossimo che aspettava i presenti.
Altri due fedeli furono afferrati e scagliati con forza immane contro le pareti e atterrarono in pose scomposte, quasi fossero stati delle bambole rotte.
Ripresosi dal panico, Renzo riuscì ad afferrare il bottino e a lanciarsi verso l’uscita alla fuga, mentre l’arco di Galgante trafiggeva quelli che capitavano a tiro e la spada di Valdemaro tranciava gli arti e spaccava le teste di chi, cercando di scampare alla furia omicida della mostruosa divinità, si buttava verso l’uscita.
Ma era più forte la paura di un dio infuriato che le armi di due uomini, e il terzetto si vide comunque costretto a una precipitosa fuga.
Mentre fuggivano correndo a perdifiato, seguiti dai fedeli in fuga e dalle urla di chi era rimasto intrappolato, una freccia colpì Galgante alla spalla.
Il vincitore del torneo li stava inseguendo e stava uccidendo i suoi stessi confratelli pur di avere linea di tiro per colpire il terzetto di intrusi.
Un’altra freccia colpi Galgante di striscio al fianco.
Poi una gli attraversò la coscia. Oramai non poteva più correre.
La botola era vicina, ma lo era anche il nemico.
Valdemaro e Renzo riuscirono ad afferrare il ferito zoppicante per le braccia e a mettersi in salvo attravero l’uscita.
E mentre i tre, spossati e ansimanti, rimettevano a posto l’altare sigillando la botola, tra le strazianti grida di dolore che venivano dal basso, una voce si levò sopra le altre: «Io ti conosco, Galgante dell’Impruneta!»
«E allora leccamelo, faccia da triglia!» gli rispose Galgante.

 

Fine?

 

 

 

 

E qui si conclude la seconda ed ultima parte… se volete che questi personaggi tornino… fatemelo sapere! Infingardi! :D
Orfeo
Orfeo
Conciencia Inoculada
Conciencia Inoculada
Emilia (para)Noica
Emilia (para)Noica
004563
004563
Un vero tatuaggio
Un vero tatuaggio
Che Notte!
Che Notte!
La stirpe di Menok – 2
La stirpe di Menok – 2