Sabbia e pietre

sabbia-e-pietre

“Plotone at-tenti!”, urlò il Sergente, e gli uomini scattarono battendo il tacco. “Secondo Plotone a rapporto, signor Mascetta!”, disse poi, facendo il saluto al Tenente.

Il Tenente ricambiò il saluto, poi si rivolse al plotone. “Riposo, riposo”, disse con voce calma, “abbiamo una missione delicata da portare a termine”, aggiunse, dopo che gli uomini assunsero la posizione di riposo.

“Il Comando ha ordinato una missione ad alto rischio, la Divisione ha scelto il Genio, ed io mi rivolgo a voi.”, disse, togliendosi l’elmetto ed asciugandosi il sudore dalla testa. “Voi siete i migliori della compagnia. Ho bisogno di nove volontari che vadano con il sergente Ledda. I dettagli li darò solo a loro.”, aggiunse dopo essersi rimesso l’elmetto.

“Comandi, signor Tenente!”, disse il Caporale Nuccio Patella, e fece un passo avanti, “mi offro volontario.”, aggiunse, seguito poi dai Caporali Giacomo Altieri e Mario Liberti, e dai soldati Luca Mantovano, Alberto Pavan, Franco Dussi, Michele Greco, Piero La Manna e Savio Di Dio. Nuccio non aveva dubbio che la squadra sarebbe stata questa, erano sempre loro i primi ad offrirsi volontari…

“Il resto del plotone, rompete le righe, trovatevi un po’ d’ombra.”, disse il Tenente, asciugandosi di nuovo il sudore dalla fronte. “Voi, seguitemi nella mia tenda.” disse ai volontari.

La tenda del Tenente, più grande di quella che Nuccio divideva con Michele  e Franco, offriva ombra, ma non fresco. Non si poteva trovare fresco in questo posto, a parte al tramonto, prima del gelo notturno…

Gli uomini si disposero intorno al tavolo, già coperto di mappe, ed il Tenente non perse tempo. “C’è da attraversare il deserto, raggiungere una batteria inglese, e sabotarla.”, disse senza preamboli, indicando un punto sulla mappa. “Avete cinque giorni a disposizione per andare, portare a termine la missione, e tornare. Non ci sarà supporto, non avrete una radio, e l’equipaggiamento sarà limitato a quello che potrete portarvi addosso. Non abbiamo neanche dettagli sulle truppe inglesi sul posto. Quella batteria deve sparire, punta su una zona in cui abbiamo bisogno di muovere delle truppe, e le truppe partiranno che ci siate riusciti o meno.”, aggiunse.

“Comandi, signor Tenente, posso parlare?”, chiese Savio, con il suo forte accento siciliano. “Savio, e tutti voi”, disse il Tenente, “parlate pure liberamente, non preoccupatevi delle formalità”, aggiunse.

“Che minghia è sta cosa, signor Tenente?”, esclamò Savio, senza freni. “Ci mandano a morire nel deserto, e poi mandano a morire gli altri?”, chiese poi.

“Savio, pensi che mi piaccia questa missione? Ho espresso già i miei dubbi al Colonnello, mi ha guardato male e mi ha detto ‘per il Duce!’.”, disse il Tenente, asciugandosi il sudore dalla fronte.

“Il Duce non sa neanche che cazzo ci facciamo qui, sior Tenente, non ci manda neanche le razioni”, commentò Alberto. “Con tutto il rispetto, sior Tenente.”, aggiunse, l’accento veneto abbastanza marcato.

“La nostra situazione non cambia nulla, Alberto, siamo soldati del Regio Esercito, ed obbediamo agli ordini, non siamo dei beduini.”, disse il Sergente, rivolgendosi poi al Tenente, “chiedo scusa, signor Tenente, i soldati sono stanchi ed affamati, e non controllano la lingua.”

“Non preoccuparti, Stefano, condivido i loro pensieri, solo cerco di non dargli voce.”, disse il Tenente. Rivolgendosi poi ai volontari, continuò “Preparate il vostro equipaggiamento, poi avete il pomeriggio libero, partirete alle undici di sera. Dovrete muovervi a piedi, la Divisione non vuole che si usino veicoli. Potete andare.”

I soldato scattarono sull’attenti, ma il Tenente li congedò con un gesto della mano, prima di asciugarsi il sudore dalla fronte.

 

 

Un pomeriggio di riposo

Gli uomini andarono al deposito della compagnia, presero munizioni, esplosivi, bombe a mano, razioni, teli color sabbia e due periscopi, poi andarono alle loro tende.

“Viva il Duce, viva il Re, viva l’Italia.”, disse Franco senza molta enfasi, poggiando le cose a terra, e stendendosi sulla brandina.

“La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti: vincere! E vinceremo!”, urlò Michele, facendo l’imitazione del Duce, con le mani sui fianchi.

“Eia! Eia! Eia! Alalà!”, risposero Nuccio e Franco, fingendo interesse. Nuccio smontò poi il suo 91, lo pulì, lo rimontò e si sdraiò anche lui sulla brandina.

 

Dopo un paio d’ore, il Sergente Ledda fece capolino dentro la tenda, e si rivolse a Nuccio “Caporale, vai all’armeria della Divisione, e fatti dare pistole e munizioni per tutti.”, disse, passandogli un foglio d’ordine. “Non voglio rischiare di essere a distanza troppo corta per i moschetti.”, aggiunse.

Nuccio si alzò a sedere, prese il foglietto, sbadigliando, e lo guardò. “Comandi, Sergente, vado subito.”, disse, e si alzò in piedi.

Fucile in spalla, si fece il chilometro fino all’armeria, dove gli furono consegnate solo sei 34, perché le altre erano necessarie per gli ufficiali, in preparazione ad una (improbabile) ispezione del Duce alla Divisione, prima della vittoria. Recuperò anche una dozzina di caricatori, e tornò alla tenda, per riposare un po’ prima di cena.

 

Alle sette e mezza presero il rancio, poi tornarono in branda per dormire ancora.

Alle dieci e mezza, si radunarono davanti alle tende, ed iniziarono a dividersi l’equipaggiamento, aggiungendo anche quattro taniche d’acqua per la via del ritorno.

Stavano per mettersi in marcia, quando arrivò il Tenente Mascetta. “Squadra at-tenti!”, esclamò il Sergente, ed il Tenente rispose subito “Riposo, uomini, riposo.”, rispondendo allo stesso tempo al saluto del Sergente.

“Un’ultima cosa, prima che partiate.”, disse il Tenente. “Voglio che torniate indietro, non voglio morti inutili. Se vedete che la situazione è amara, abbandonate, tornate al campo, e diremo alla divisione che c’erano un paio di carri a difesa.”, aggiunse.

Fece poi il saluto, e disse “Buona fortuna.”, e si allontanò.

 

 

Il viaggio

Si misero in marcia, Piero in testa, perché era quello con la vista migliore.

Di notte, al buio, si procedeva lentamente, dovendo navigare i campi minati, e fare attenzione che le ombre non nascondessero esploratori nemici.

Dopo quattro ore, percorsi tre chilometri, erano al di fuori della zona minata, e poterono accelerare un po’ il passo. Il peso dell’equipaggiamento, però, li costrinse ugualmente a fare diverse pause per bere, che sfruttarono anche per verificare la loro posizione attraverso le stelle.

In prossimità dell’alba del primo giorno, percorsi in tutto cinque chilometri dal campo base, erano ormai in territorio nemico. Scavarono una trincea, e vi si sistemarono dentro coprendosi con i teli. Un po’ della sabbia scavata fu accuratamente depositata intorno alla trincea, in modo che dalle linee nemiche un eventuale osservatore non avrebbe notato nulla di sospetto.

Durante il giorno, al di là di qualche aereo d’esplorazione, che non avrebbe distinto la loro buca, coperta dai teli, non si vide un’anima. Un periscopio in avanti ed uno indietro, coperti per evitare riflessi, e passarono la giornata rintanati lì, in attesa del buio.

Al calar della notte, smantellato il riparo, e tappata la buca, si rimisero in marcia.

 

Il Sergente decise di procedere speditamente, e coprirono altri sette chilometri, fermandosi continuamente per ascoltare ed osservare. Il nemico era vicino, ne erano coscienti, ma probabilmente così distanti dalla linea del fronte non si aspettavano la presenza di soldati italiani, e quindi la guardia era un po’ più bassa.

Prima dell’alba del secondo giorno scavarono una nuova trincea, e ci si nascosero dentro, spendendo le ore diurne in turni di riposo e guardia sotto i teli. La loro posizione era distante dalle truppe nemiche, ma non abbastanza da passare inosservati se si fossero mossi alla luce del sole.

 

Arrivata la sera, smantellarono la posizione e ripartirono. Mancavano altri quattro o cinque chilometri circa, ed il Sergente voleva coprirli prima dell’alba, per avere più tempo per decidere come procedere.

Forzando il passo, coprirono i chilometri restanti in poco più di due ore, arrivando alle nove di sera in prossimità di un’area illuminata. Il nemico era lì!

 

“Allora, Piero”, disse il sergente, “prendi con te Nuccio e vai a controllare quella duna, gli inglesi dovrebbero essere non molto lontani dall’altro lato. Fate attenzione. Tutti gli altri, pronti ad agire”.

Nuccio e Piero raggiunsero silenziosamente la duna, poi iniziarono a strisciare verso l’alto. Arrivati in cima, diedero un’occhiata dall’altro lato. Le canne dell’artiglieria inglese erano ben visibili, il campo alle spalle illuminato da luci elettriche.

Otto cannoni, un centinaio di uomini tra equipaggi e personale vario, qualche fuoristrada, e nessun mezzo corazzato. Nuccio e Piero strisciarono indietro, e riferirono al Sergente.

“Bene, ora il gioco si fa veramente duro.”, disse il Sergente. “Dobbiamo scavarci una buca sulla duna, in modo da osservare il campo, ed allo stesso tempo stare nascosti. Voglio sapere esattamente tutto quello che succede durante il giorno e la notte nel campo, prima di decidere.”, aggiunse poi.

 

I soldati si misero all’opera, prepararono silenziosamente la postazione, poi tutti vi si sistemarono. Iniziarono i turni di osservazione e guardia, e studiarono il campo nemico.

 

 

La preparazione

Passarono la notte ad osservare il campo nemico, gli spostamenti delle guardie, i cambi turno, le procedure.

All’alba del terzo giorno, il Sergente si rivolse agli uomini. “Allora,”, sussurrò, “I cannoni sono carichi, probabilmente attendono l’ordine di fuoco da un momento all’altro, e devono solo puntarli. Il generatore elettrico si è spento tre volte, e non in maniera programmata, quindi se lo spegniamo noi non scatta un allarme. Questo gioca a nostro favore”.

“Sergente, la guardia viene presa in modo leggero.”, disse Michele, “non dovrebbe essere un problema avvicinarci senza essere scoperti.”, aggiunse.

“Abbiamo un problema, però,”, disse Piero, “quei cannoni sono troppo spessi per le cariche che abbiamo. Possiamo fargli danni, forse, ma non distruggerli.”

Il Sergente iniziò a rimuginare, pensando ad un modo per distruggere i cannoni che non comportasse il combattimento.

“Sabbia e pietre.”, disse Nuccio, e tutti si girarono a guardarlo. “Sabbia e pietre,”, ripeté, “quando sono stato in Etiopia, i negri lo hanno fatto a noi, ma per fortuna ce ne accorgemmo in tempo.”, aggiunse.

“Se gli mettiamo sabbia e pietre, quando spareranno i proiettili gli esploderanno nella canna, dovrebbe essere sufficiente a metterli fuori uso. Non dobbiamo riempirli del tutto, ma solo abbastanza da fare tappo. Volendo, gli aggiungiamo anche gli esplosivi, per aggiungere potenza. Al cambio della guardia non aprono la culatta, quindi non c’è rischio che se ne accorgano.”, disse poi.

Il Sergente ci pensò su un momento, poi annuì con la testa. “Bene, ci muoveremo stanotte, con il buio”, disse, “due uomini ogni coppia di cannoni, uno di guardia, l’altro a riempire la canna, ruoli invertiti al cambio di cannone, la guardia con la pistola. Dobbiamo completare il lavoro prima dell’alba.”, disse, “Nuccio, tu ed io andremo a spegnere il generatore.”, aggiunse.

 

 

La giornata si trascinò lenta, in attesa del buio. Gli uomini, stretti nella loro buca sotto i teli, cercarono di dormire. Nuccio tirò fuori la croce che portava al collo, la baciò e disse una preghiera. Giacomo e Mario si scambiarono lettere per le famiglie, e così anche Michele e Piero. Mangiarono un po’, e continuarono ad aspettare e contare le ore.

 

 

Un’ora dopo il tramonto, i soldati lasciarono nella buca l’equipaggiamento in eccesso, per potersi muovere più rapidamente, presero solo le cariche, ed una pistola per coppia. Nuccio e il Sergente avevano le ultime due pistole.

Quando tutti erano pronti, il Sergente si rivolse alla squadra.

“Allora, entrate in azione quando si spengono le luci, e cercate di completare il lavoro il più rapidamente possibile.”, disse, “Se le cose si mettono male, valutate se sia meglio scappare o arrendervi; meglio prigionieri vivi, che cadaveri. Completato il lavoro tornate qui, se scoppia il casino prendete quello che vi serve per sopravvivere e scappate, e ci si rivede al campo. Se non c’è casino, aspettate qui non più di due ore, poi andate via. Buona fortuna a tutti!”.

Gli uomini si prepararono a superare la duna, mentre il Sergente e Nuccio effettuavano un giro più lungo.

 

 

L’azione

Mezz’ora dopo, il Sergente e Nuccio si trovavano a quattrocento metri dalla buca, a trenta metri del generatore elettrico, in attesa del momento opportuno.

Un soldato inglese stava caricando benzina nel serbatoio, mentre un suo compagno gli reggeva il fucile. Oltre loro due, il soldato più vicino era duecento metri più in là.

“Stefano”, disse Nuccio, “appena se ne vanno, striscio lì, lo spengo, e rapidamente tolgo una candela, e la lancio da qualche parte. Poi torno indietro. Tu coprimi; gli altri hanno più bisogno di te che di me, al ritorno.”

Il Sergente aprì la bocca per protestare, ma visto lo sguardo determinato di Nuccio, si limitò ad assentire dicendo “va bene”.

 

Gli inglesi, finito il lavoro, si allontanarono, fucili in spalla. Quando furono ad una cinquantina di metri, Nuccio partì.

Strisciando sulla sabbia, orecchie tese ed occhi spalancati, metro dopo metro percorse la distanza che lo separava dal generatore. Arrivato davanti al motore, sfilò la baionetta dal fodero, e si tirò su in ginocchio.

Dopo essersi guardato nuovamente intorno, tirò la leva di arresto, poi usò la punta del coltello per fare leva, sfilando una candela dall’alloggiamento. Rimettendosi rapidamente la baionetta nel fodero, lanciò la candela, poi corse verso il Sergente, stando basso ed approfittando del buio.

Raggiunto il Sergente, si gettò a terra. e strisciarono indietro, seguendo il percorso fatto all’andata, fino alla buca. Si piazzarono sotto i teli, ed attesero.

Dopo venti snervanti minuti, sentirono una voce sussurrare “Maria”. Nuccio rispose “Santissima”, e sollevò il telo per accogliere Giacomo e Luca. “Missione completa, Sergente.”, disse Giacomo.

Attesero un’ora, ed anche Mario, Alberto, Michele e Franco rientrarono alla buca. Solo due mancanti all’appello, ed altri quaranta minuti prima di levare le tende.

Dopo altri venti minuti, sentirono l’inconfondibile voce di Savio sussurrare “Maria”, ed il Sergente, imitandone l’accento, rispose “Santissima Addolorata”, mentre gli altri risero silenziosamente.

“Chiedo scusa, Sergente.”, disse Savio, “ma un minchione di inglese ha deciso di pisciare proprio a due passi da noi. Abbiamo dovuto aspettare che finisse, e Piero voleva fargli una foto alla minchia.”, aggiunse ridendo.

Il sergente fece un cenno con la testa a Nuccio, che scivolò fuori dalla tenda, mentre gli altri iniziarono a prepararsi per il ritorno.

 

Il campo inglese era ancora al buio, ma si sentivano le voci dei soldati. Nuccio non parlava inglese, ma dal tono si capiva che stavano cercando qualcosa. Sicuramente la candela mancante.

Nuccio salì la duna per controllare, e vide una quattro inglesi, con torce elettriche, che avanzavano nella loro direzione. Strisciando, scivolò giù e tornò alla buca.

“Sergente, pattuglia nemica, controllano il perimetro ora che non c’è luce.”, disse.

“Tutti pronti a partire”, disse il Sergente, “Savio e Giacomo raccogliete i teli.”. I soldati eseguirono rapidamente, ed imbracciarono le armi pronti al peggio.

Usciti dalla buca, sentirono le voci degli inglesi subito dietro la duna, che si stavano avvicinando. Il Sergente puntò la mano ad ovest, ed i soldati iniziarono a correre, cercando di far meno rumore possibile.

Quando gli inglesi superarono la cresta, erano già fuori del raggio delle torce elettriche, e rallentarono un po’ il passo, ma non si fermarono mai.

 

 

Il ritorno

Corsero per un’ora, poi rallentarono ad una marcia normale, e proseguirono per un’altra ora, per poi fermarsi e preparare la buca per il giorno successivo, a due chilometri dagli inglesi.

Una volta dentro la buca, Michele frugò nel suo zaino, e tirò fuori una bottiglia avvolta in due calze di lana. “Bocchino, l’ho rubata alla mensa ufficiali quando ero di servizio”, disse stappando la bottiglia, “penso si possa brindare al successo, no?”.

Il Sergente fece un cenno di sì con la testa, e rispose “solo se sono io a bere il primo sorso”, strappando la bottiglia di mano a Michele. Dopo aver bevuto, si prepararono al lungo giorno di attesa.

 

All’alba del quarto giorno, dopo aver controllato con i periscopi, il Sergente mandò Michele e Piero a controllare l’area circostante, mentre gli altri mangiavano qualcosa.

“Sergente, non c’è un’anima fino a dove si vede”, disse Piero una volta tornato, accettando un paio di gallette da Nuccio.

“Vuol dire che proseguiamo, strisciando”, disse il Sergente. “Sette avanzano, uno controlla ad est, uno a nord, uno a sud. Quando i sette hanno fatto duecento metri, coprono l’area e gli altri li raggiungono”.

“Sergente”, disse Nuccio, “io copro le spalle”. Subito Giacomo e Mario si offrirono per le altre due postazioni di guardia. Il Sergente annuì, e diede ordine di smantellare il riparo.

Senza perdere tempo a riempire la buca, i soldati iniziarono a strisciare, procedendo verso ovest, verso il campo base. Il caldo del deserto era massacrante, ma non avevano molto tempo a disposizione, ed il Sergente voleva accorciare i tempi il più possibile. Fecero una sola pausa di un’ora, per mangiare e riposarsi un po’, senza scavare buche.

 

Un’ora dopo il tramonto, percorsi altri quattro chilometri, si alzarono in piedi e procedettero a passo di marcia. “Cerchiamo di coprire più distanza possibile”, disse il Sergente, “Domani restiamo fermi durante il giorno, saremo vicini alla linea del fronte.”.

Dopo tre ore di marcia, coperti altri quattro chilometri, il Sergente fermò la squadra per una pausa. Mancavano ormai cinque chilometri circa dal campo base, ed in un paio di chilometri sarebbero entrati nei campi minati.

“Riposiamoci per un paio d’ore, poi copriamo un altro paio di chilometri, per raggiungere la linea dei campi minati, poi vediamo che fare”, disse. I soldati mangiarono qualcosa, e bevvero un altro po’ di grappa, poi si alternarono per riposare un po’.

Ripresa la marcia, la vicinanza alla linea del fronte e dei campi minati li costrinse a rallentare il passo. Coprirono altri due chilometri in due ore, poi intravidero i primi segni dei campi minati. “Savio, tu e Michele in avanti, conoscete i campi meglio di tutti”, disse  il Sergente, ed i due soldati scattarono in ricognizione.

Gli altri procedevano in fila indiana, cinque metri l’uno dall’altro, con Nuccio e Franco che chiudevano. Dopo un’ora, Franco avanzò e mise la mano sulla spalla di Nuccio, che si fermò.

“Lo senti anche tu?”, chiese Franco, sollevando un dito e puntandolo verso est. Nuccio si concentrò, e sentì un suono da dietro una duna. “Sergente!”, esclamò, “Carro inglese, a duecento metri, viene di qua!”.

Tutta la squadra si fermò di colpo, in attesa di ordini. “Savio, Michele, dobbiamo correre, fate il vostro lavoro!”, gridò il Sergente. “Uomini, siamo arrivati qui, ormai siamo a casa!”, aggiunse.

 

Iniziarono a correre, ognuno sulle orme del soldato che lo precedeva, e dopo un minuto furono illuminati dai fari del carro inglese. “Più veloci!”, gridò il Sergente, puntando con il braccio verso ovest.

I soldati accelerarono il passo, quasi incuranti del pericolo, ma un dubbio si insinuò nella testa di Nuccio. Il carro inglese era nel campo minato, ma non era esplosa ancora nessuna mina. Possibile che fossero ancora lontani?

Corsero ancora, sempre in fila indiana, per mezzo chilometro, con il carro che accorciava le distanze, ma senza accelerare. All’improvviso si sentì il suono di una mitragliatrice; i carristi li avevano individuati!

“Più veloce!”, urlò il Sergente. “Più veloce!”.

Nuccio vide Alberto cadere a terra all’improvviso, e lo sentì lanciare un urlo. “Mi hanno preso alla gamba, bastardi!”, urlò Alberto.

Nuccio e Franco lasciarono cadere a terra i moschetti, e si tolsero gli zaini, e tirarono su Alberto, dandogli supporto. “Sergente, lo abbiamo preso, proseguiamo”, urlò Nuccio.

Il carro inglese era ormai a poco più di cento metri, avanzava lentamente, l’equipaggio conscio del rischio mine. Nuccio e Franco, appesantiti da Alberto, stavano perdendo terreno rispetto agli altri, quando improvvisamente si sentì un boato tremendo, e furono buttati a terra da un’onda d’urto. Nuccio batté la testa su una pietra, e fu tutto nero.

 

 

Campo base

Quando Nuccio riaprì gli occhi, era nella tenda dell’infermeria, una fasciatura intorno alla testa, e del cotone premuto sulla tempia sinistra.

Si guardò intorno, e vide Alberto sulla brandina di fianco alla sua, la gamba destra fasciata e tenuta ferma. Un altro paio di soldati, non del suo plotone, occupavano altre brande.

Si alzò in piedi, e si affacciò all’esterno per cercare un infermiere, dove trovò il Tenente Mascetta che parlava con un Sottotenente chirurgo.

“Tutto bene, allora?”, chiese il Tenente al chirurgo. “Nessun problema, Tenente,”, rispose questi, “il proiettile non ha reciso l’arteria. Abbiamo dovuto rimuovere le schegge dell’osso, ma va tutto bene, ricomincerà a camminare in un mesetto. Per ora lo mandiamo a casa con il primo volo, poi deciderà il comando.”, aggiunse. Poi fece il saluto, e si allontanò verso un’altra tenda.

 

“Comandi signor Tenente! Caporale Patella a rapporto e pronto all’azione!”, disse Nuccio scattando sull’attenti e facendo il saluto. Il Tenente restituì il saluto, e si sfilò l’elmetto per asciugarsi il sudore dalla fronte.

“Riposo, Caporale, riposo.”, disse il Tenente. “La vostra missione è stata un successo. Le truppe hanno superato l’area senza fuoco nemico, e l’aereo esplorativo ha comunicato che l’intera batteria è distrutta. Ottimo lavoro! Ora va a riposare, starai in infermeria per un paio di giorni ancora.”.

Il Tenente si asciugò ancora una volta il sudore dalla fronte, rispose al saluto di Nuccio, e si allontanò. Nuccio tornò in tenda a riposare.

 

 

Epilogo

Per l’azione compiuta, il plotone ricevette la medaglia di bronzo al valor militare, e i dieci uomini della squadra ricevettero individualmente le congratulazioni del comandante di Divisione.

Per il suo contributo all’azione, il Caporale Nuccio Patella fu promosso a Sergente.

 

Poche settimane dopo, scoppiò la seconda battaglia di El Alamein (considerata la terza dagli italiani), ed il secondo Plotone, pur subendo perdite, fece parte delle truppe che riuscirono a scampare alla prigionia, almeno per un po’.

 

Nuccio si beccò la malaria, ed a causa della febbre fu nuovamente costretto in infermeria. Il resto del plotone, invece, durante un trasferimento su un autocarro fu colpito da un aereo inglese, e non si salvò nessuno.

 

Anni dopo, nei primi anni ’80, Nuccio morì di cancro al fegato, causato dalla malaria mal curata. Per tutto il resto della sua vita, Nuccio ricordò con affetto i suoi compagni, e con orrore la guerra, parlandone molto raramente, sia con i suoi figli che con i suoi nipoti.

 

Al giorno della sua morte, Nuccio non ha mai scoperto quali truppe, e per quale operazione, dovessero passare dal corridoio coperto dalla batteria inglese. Il Comando non ha mai ritenuto opportuno informare i membri di quell’azione.

 

 

Disclaimer

I nomi sono inventati, ogni riferimento a persone reali è puramente casuale.

I fatti raccontati, però, sono reali, anche se nessun libro di storia e nessuna cronaca di guerra li riporta. Li ho riportati in maniera romanzata, e molti dettagli sono sicuramente sbagliati, in quanto ho ricevuto solo informazioni striminzite in merito.

Sono venuto a conoscenza di questi fatti da ragazzino, direttamente dalla bocca di Nuccio, che però si è limitato a parlarmi del luogo (la zona di El Alamein), della missione (distruggere la batteria inglese), e del metodo adottato (sabbia e pietre).

Conosco Nuccio da che ho memoria, ed è morto quando ero bambino. Era mio nonno.

Chiedo scusa a tutti se lo stile fa un po’ pena, ma l’emozione nello scrivere è stata forte.

Mitos: Xifote e la spada del deserto
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Le Avventure della F.I.G.A. - 1944, La Bomba Atomica dei Nazisti (Parte I)
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