From Software e la difficoltà nei videogames

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Nel mondo del gaming, ci vuole abilità per unire il sacro al profano e riuscire comunque a stimolare interesse nell’integralista. È come analizzare ironicamente i luoghi comuni e sopravvivere abbastanza a lungo per valutare, eoni dopo, come in fondo la dialettica del popolino abbia sempre un suo perverso fondamento di verità che trascende la logica.

A metà strada tra un déjà-vù del già seminato ed una nuova frontiera  del masochismo digitale.

From Software sta li, nel mezzo. Talvolta folle, il più delle volte follemente vogliosa di amore ludico. A metà strada tra un déjà-vù del già seminato ed una nuova frontiera  del masochismo digitale, i giapponesi hanno dimostrato come il loro dialogo con il giocatore sia sempre stato sincero. Talvolta arruffato, poco chiaro, quasi criminale nell’intento ma intimo, vero, sin dalle origini.

Un paio di giorni fa si è parlato dell’assenza di difficoltà nei videogiochi come teorico elemento scollegante della massa dal medium.

 

 

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La difficoltà sia invece quell’elemento che, se presente e saggiamente calibrata, lega il giocatore ad un prodotto in maniera quasi inseparabile.

Oggi ribaltiamo la minestra dimostrando, e rimarcando, come la difficoltà sia invece quell’elemento che, se presente e saggiamente calibrata, lega il giocatore ad un prodotto in maniera quasi inseparabile.

È un tema ciclico, una tesi che si ripete a targhe alterne: ma sono i giochi odierni ad essere facili o semplicemente, in fase di sviluppo, la difficoltà non viene proprio più analizzata come parte della struttura di gameplay? La questione è estremamente profonda, particolarmente vulnerabile in quanto a rischio generalizzazione.

Ed infatti conviene aggirarla: quanto, se presente, il fattore di difficoltà rappresenta il vero stimolo di incaglio in un titolo? La saga Souls fornisce una sua risposta, e valutando il feedback dell’utenza non è semplice confutare la conclusione raggiunta.

 

 

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Chiunque entra viene graziosamente preso per mano ed ucciso brutalmente.

Perché in quei mondi fantasy, di spazio per i deboli, non ve ne è. Chiunque entra viene graziosamente preso per mano ed ucciso brutalmente. Senza grossi problemi, pietà o comprensione.

Il muro di frustrazione, però, muta con il passare delle ore. Diviene un percorso di crescita, si fonde ad un substrato di power-playing in cui il giocatore capisce di potercela fare, smette di crogiolarsi nell’autolesionismo e infine si impegna. Farma. Affronta le sue paure ed avanza, a costo di rimetterci in salute.

La sfida diviene avanzamento misto ad emozione nell’affrontare e sconfiggere l’ignoto.

Quello di From Software è un concetto di difficoltà ricorsiva che gira, ti si schianta addosso, colpisce poi fugge. Per poi tornare, immancabilmente.

 

 

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Nel 2009, quando si presentarono con Demon’s Souls, non se li è filati quasi nessuno.

Ragionandoci sopra, hanno vinto, c’è poco da fare. Nel 2009, quando si presentarono con Demon’s Souls, non se li è filati quasi nessuno. Entro un mese il passaparola ha salvato il brand.

Stavano tutti li, a lanciare improperi, consultare wikia, scambiarsi pareri, analizzare gli elementi di ambientazione e trama.

Perché nei Souls la difficoltà non è solo ludica, ma anche narrativa.

In un mondo di dialoghi spezzati, frasi rotte, PNG sparsi ma profondamente collegati all’ambientazione, è arduo capirci qualcosa. E li il sogno del team di concretizza: i giocatori dialogano e si confrontano.

Come quando Hideaki Anno si dichiarò fiero del fatto che gli otaku rompessero silenzio e timidezza per parlare del finale di Evangelion.

Si chiama marketing negativo quella tendenza pubblicitaria a sponsorizzare i competitor negativamente per valorizzare, in maniera indotta, i propri punti di forza.

 

 

 

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Crepare all’infinito. Con umiliazione, talvolta.

Da questo punto di vista l’approccio utilizzato è stato meno ortodosso, in quanto la bravura è stata puntare proprio sul fattore più universalmente riconosciuto e “viralizzabile”: crepare all’infinito. Con umiliazione, talvolta.

Esattamente ciò che altri videogiochi praticamente non hanno più. Negativo, ma all’inverso; l’apparente male è il punto di forza.

Lo slogan per definizione di Dark Souls è uno e univoco, hanno anche tratto il nome per farci una versione definitiva con DLC: si chiama Prepare to Die. Abbastanza chiaro, una sorta di tappeto per Hardcore con scritto Welcome.

A breve esce il seguito, e la frase è ancora più bella: Go Beyond Death.

Oltre la morte… non c’è granché. Per chi crede magari si. Ma per chi gioca c’è solo un altro #GameOver.

Che poi è quello che il player odierno vuole quando impugna certi prodotti: sentirsi disintegrato e oppresso dal peso del fallimento. È un’idea di sfida che si discosta dal punitivo ed evolve nello spirituale, come una seconda anima di gameplay che si associa al tecnicismo di joypad.

Come arrivare all’ultimo ostacolo di un runner.

O a pochi HP dalla morte di Der Richter in Final Fantasy X.

È un culto che si autoalimenta: più si muore, più si fallisce e maggiormente si sbatte la faccia contro ostacoli all’apparenza insormontabili, più l’istinto e la voglia di farcela fanno incaponire e giù a colare all’inverosimile. Quasi con un ghigno stampato sul viso, posseduti dal più lamerozzo degli Oni.

Si potrebbe controbattere che basterebbe spendere decine o centinaia di ore ad aumentare di livello. Certamente. Ma così facendo si perderebbe il senso di affrontare a testa alta la saga high-budget più soddisfacente degli ultimi anni.

Va bene vincere facile, ma questo è vincere male. Siate saggi. Affrontate questo viaggio un po’ per volta, e valorizzate le sfide che propone.

L’oscurità che si dipana. La sporcizia imperante. Un fantasy di altri tempi, con aria intrisa di magia ostile ad ogni angolo.

Se anche quei pochi titoli tosti li rendiamo meri zuccherini vittime di un farming selvsaggio, veramente… cosa ne rimane di questo mercato di massa?

 

Questo articolo è parte della Nerd Quest #gameover
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