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Makers: quando l’innovazione digitale si abbatte sul reale

Makers: quando l’innovazione digitale si abbatte sul reale

Fred Hauser emigrò da Berna a Los Angeles nel 1926.
Era un operaio specializzato e in lui c’era la precisione tipica di un orologiaio svizzero.

Trovò subito un lavoro agli MGM Studios e ben presto si sposò e acquistò una villetta in stile mediterraneo su una strada laterale di Westwood con un prato frontale lussureggiante.

Hauser però non era un semplice ingegnere impiegato. Di notte faceva l’inventore.

Viveva in California dove il caldo e i prati perfettamente ricoperti d’erba non mancavano. Ogni operaio, man mano che la regione diventava sempre più prospera, installava un impianto di irrigazione e orgoglioso lo apriva per innaffiare il suo giardino.

Splendido, a parte il fatto che tutto era manuale.

Hauser pensò subito a un nuovo meccanismo per riuscire ad automatizzare tutto. La sua risposta fu il brevetto numero 2311108, un sistema di irrigazione automatico che apriva e chiudeva le valvole con un orologio elettrico. Costruì il prototipo e cercò di presentarlo a qualche azienda per lanciarlo sul mercato.

Makers
Ecco che emergono i limiti del modello industriale del XX secolo.

Come dice Marx “Il potere è di coloro che controllano i mezzi di produzione”.

 “Il potere è di coloro che controllano i mezzi di produzione”

Infatti, a quell’epoca se non riuscivi a produrre e vendere milioni di pezzi nessuno si accorgeva di te.
Fortunatamente il signor Hauser riuscì a concedere in licenza il suo brevetto a Moody che lo trasformò per essere commercializzato e lo distribuì sotto il nome di “RainMaster”. Furono venduti migliaia di “RainMaster”, ma Hauser ricavò solo poche migliaia di dollari dalle Royalty.

Perché? Perché Hauser era un inventore, non un imprenditore, o almeno non aveva la possibilità di esserlo.

Adesso pensiamo al Web: ha reso democratici gli strumenti di invenzione e di produzione. Ognuno di noi può trasformare un servizio in un prodotto con l’aggiunta di qualche codice. Poi, grazie a internet, possiamo premere un tasto e consegnarlo a un mercato globale.

Ecco che cos’è un Maker: un maker è un inventore che grazie all’open source, alle ultime tecnologie e al web, è riuscito a diventare anche un’imprenditore.

Questi nuovi inventori dovranno pur avere qualche strumento che lo differenzia dal precedenti per potersi chiamare anche imprenditori. I makers hanno a disposizione nuovi strumenti come i laser cutter, le macchine CNC e gli scanner 3D. Un strumento fondamentale nel movimento dei makers è soprattutto la stampante 3D.

Avete presente una stampante? Il processo è esattamente lo stesso. La vostra stampante inietta su un foglio di carta bidimensionale del colore, in modo da far comparire un’immagine. Una stampante 3D funziona in modo identico, solo che utilizza polimeri come ABS o PLA al posto dell’inchiostro, e stampa uno strato bidimensionale su più livelli creando così un’oggetto 3D. Praticamente permette di smaterializzare e materializzare oggetti dall’altra parte del mondo.

Fantastico. Le stampanti 3D adesso sono in grado di fabbricare oggetti con risoluzione molto alta, senza colori, con un solo materiale, ma dovete pensare che siamo allo stesso livello delle stampanti normali di 40 anni fa: stampavano grazie agli aghi imbevuti di inchiostro.
Adesso ognuno di noi ha la propria InkJet nel suo ufficio, pronta a stampare un solo foglio in meno di 15 secondi.

Se facciamo un paragone le stampanti 3D ben presto potrebbero iniziare a stampare anche materiali diversi dalla plastica. Potremmo stampare rame, alluminio, vetro ma anche glassa per le torte. Potremmo, con un tasto, stampare un oggetto che ci serve. Ecco perché i makers sono dei rivoluzionari.

 FabLab

Per sviluppare la mia tesina sono andato a Pisa, dove ho conosciuto la community dei makers pisani.

Da poco stanno pubblicizzando l’apertura di un nuovo FabLab tutto Pisano e appena l’ho saputo, senza perdere tempo, li ho contattati per un incontro.

Ma che cos’è un FabLab?

Ma che cos’è un FabLab?

Un FabLab è un laboratorio di idee. È la patria dei makers. A disposizione ci sono stampanti 3D, laser cutter, microcontrollori, schede come Arduino, tutto ciò di cui c’è bisogno per hackerare la realtà.
I FabLab nascono e continuano a vivere con uno scopo preciso: la condivisione. I makers vengono dal web, un mondo dove la legge della condivisione regna sovrana, ed è per questo motivo che i FabLab esistono: per condividere.

Il ruolo che gioca il FabLab nel movimento dei makers è cruciale e non può essere sottovalutato perché è attraverso di esso che si condivide il Know-How. Il “sapere come fare per”.

Questo è quello che ho capito a Pisa. A Pisa non esiste ancora un vero e proprio FabLab. Il FabLab è la community di persone che si incontrano e collaborano. In questo modo si possono realizzare prodotti nuovi che realizzano bisogni dell’uomo magari inesistenti.

In un FabLab un maker che ha un’idea ma sa realizzarne solo una parte la condivide con la community, dove trova altri makers in grado di realizzare il resto. Insieme costruiscono il futuro. Una nuova e brillante invenzione che, con l’aggiunta di un pizzico di web e del modello makers, porta ad un business di successo.

C’è una storia che parla di questo. Una storia molto simile, dove un gruppo di ragazzi ha sconfitto una società del calibro di Sony.

Il 12 aprile 2012 Sony ha annunciato con la sua consueta fanfara il lancio del suo nuovo smartwatch. Un orologio per leggere le email, i testi, consultare i social network collegati via bluetooth direttamente al cellulare. Sony però è passata inosservata. Perché? Perché il giorno prima un gruppo di ragazzi che hanno condiviso il loro sapere in un laboratorio a Palo Alto, California, sono riusciti a produrre uno smartwatch che era semplicemente meglio: Pebble.

Pebble aveva uno schermo migliore di quello Sony che permetteva una lettura anche sotto il pieno sole e migliorava enormemente la durata della batteria. In più funzionava con iPhone e Android e costava il 25% meno di quello prodotto da Sony. Un gruppo di ragazzi, imprenditori, makers, aveva superato per progettazione, mercato e prezzo una delle multinazionali più grandi al mondo.

Poi arrivò KickStarter, che gli permise di trionfare anche sul piano delle vendite.

KickStarter è un sito dove i makers, gli inventori e ogni persona normale che ha un conto PayPal può postare il prototipo di un prodotto da lui ideato e decidere una somma minima in denaro necessaria per realizzarlo. Le persone invece di fare una donazione pre-ordinano il prodotto, prima che l’azienda sia nata. Se il prodotto, raccogliendo pre-ordini, supera la soglia prefissata, tutti i clienti ricevono un’addebito e i soldi vanno sul conto dell’inventore che può creare la propria azienda e dare il via alla produzione.

Pebble annunciò il suo progetto al mondo l’11 aprile 2012 fissando una cifra di 100.000 dollari come quota su Kickstarter.

Raggiunse questa cifra in 2 ore.

Ma non si fermò affatto. Dopo un solo giorno raggiunse il milione di dollari, e dopo una settimana registrò il record del sito con più di 3,34 milioni di dollari.

Alla chiusura, dopo poco più di un mese, Pebble aveva raccolto più di 10 milioni di dollari e aveva ricevuto 85.000 preordini di orologi.

Sony era definitivamente stracciata.

 

Questa è solo uno fra i tanti successi. Potrei raccontarvi molte altre storie simili. Quello che è importante però è la condivisone che sta alla base di tutto. Le aziende avviate dai makers trainati dal web ce la fanno.

Perché?
Primo

Per 3 motivi:
Il primo è che, dato che i makers nascono nei FabLab e su internet come community aperta, il forte potenziale di crescita che da la rete è già radicato nel loro DNA.

Le community sono in grado non solo di fornire processi di sviluppo del prodotto più rapidi, migliori e meno cari, ma spesso propongono anche strategie di marketing meno costose.

Secondo

Secondo: Queste aziende sono nate secondo i principi del web, quindi sono capaci di sfruttarne al massimo i potenziali: dalla ricerca di fornitori a basso costo alla manifattura virtuale che si avvale di agenzie di servizi esterni.

Le aziende costruite dai makers sanno sfruttare meglio gli strumenti disponibili sul mercato per risparmiare e accelerare lo sviluppo del prodotto.

Terzo

Ultimo ma non per importanza: essendo aziende nate online, sono anche globali. In genere si rivolgono a nicchie di mercato che vanno ben al di là dei confini nazionali. Partono quindi con tutti i presupposti per essere degli esportatori. Il risultato è che riescono a crescere più velocemente, ma riescono anche a tenere a bada più in modo efficace la concorrenza perché sono già in competizione con un mercato globale.

Grazie ai makers il ruolo delle aziende più piccole ha la possibilità di cambiare. Come le startup sono i motori dell’innovazione nel mondo della tecnologia, e l’underground lo è per la nuova cultura, così anche l’energia e la creatività degli imprenditori e degli innovatori individuali possono reinventare la manifattura e creare nuovi posti di lavoro.
In Italia il nostro tessuto economico è formato in larga parte dalle cosiddette PMI.

In Italia le piccole e medie imprese sono da sempre state la maggiore fonte di nuovi impieghi. Il difetto è che sono troppo poco innovativi e attivi solo a livello locale: pizzerie, ristoranti, drogherie, gelaterie, ecc. La grande opportunità che ci offre il movimento dei makers è quella di essere contemporaneamente piccoli e globali, artigianali e innovativi, high-tech e low-cost.

Iniziare piccoli, ma diventare grandi. E, sopratutto, creare quei tipi di prodotti che il mondo vuole, ma ancora non lo sa, perché non si adattano bene all’economia di massa del vecchio modello.
Più di 4 anni fa in un grande libro di fantascienza intitolato anch’esso makers, Cory Doctorow scriveva:

I giorni di aziende come ‘General Electric’, ‘General Mills’ e ‘General Motors’ sono finiti. Il denaro sul tavolo è come il krill: un miliardo di piccole opportunità imprenditoriali che possono essere scoperte e sfruttate da persone intelligenti e creative

Benvenuti nella Nuova Rivoluzione Industriale.

 

 

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