I denti bianchi (3 di 3)


Prima parte e Seconda Parte

Tzia Cesara non perdeva più sangue da quella umida ferita da anni ormai. Sbiadite, opache, dentro il barattolo di vetro trasparente identificabile da un’etichetta un po’ rovinata dagli anni, c’erano le ovaie della Tzia.
Eppure ora era gravida come una cagna, col ventre teso e rosso di capillari sottili come fili da cucito e la pelle lucida come potesse lacerarsi nel rumore di uno strappo a breve.
Il giovane don Francesco era arrivato addirittura da Cagliari, solo per la Tzia. L’aveva infatti mandato a chiamare don Giulio appena saputo della miracolosa gravidanza. Ma siccome una puttana non può essere benedetta da un miracolo, anche se il nostro Signore Gesù Cristo ne ha perdonata una, è comunque bene sentire il Vescovo di Cagliari prima di fare santa una bagassa, che poi magari si crede Santa Maria Goretti…
Efisieddu non aveva mai visto quell’uomo.
L’atto, quando il piccolo guardava, si svolgeva al buio della piccola casa. Perché in quel tempo, quando una casa era piccola, lo era davvero. Quattro mura di pietra senza finestra, anche perché poi solo un lato avrebbe potuto ospitarla, ossia quello che dava sulla campagna. Mentre uno guardava la strada attraverso le sbarre incrociate, uno poggiava sul muro della casa degli Angioj, e l’altro si affacciava sulla proprietà dei Mameli, col terreno pieno di ghiande da almeno tre maiali. Dentro, l’abitazione era ancora più misera che a vederla dall’esterno, sebbene non fosse per niente sporca o malandata.

[more]Un piccolo tavolo massello occupava quella che probabilmente era la zona giorno, con una cucina a gas sicuramente regalo del fratello e ancora fortemente sconosciuta al resto del paese, e due sedie coperte di stracci, vestiti e stoffa che testimoniavano come la maggior parte delle attività sociali di Tzia Cesara non si svolgesse intorno al tavolo. Da dietro la cucina a gas partiva un altro tubo, che terminava in un grosso fornello, utilizzato per fare la bagna, o a preparare l’acqua calda per far lavare i clienti nella vasca che stava attaccata alla parete. Per pulci e pidocchi aveva risolto con una polvere regalatale dai militari americani della base, che la usavano per eliminare la malaria in Sardegna.
Più semplice era invece la zona notte, o lavoro, che vedeva presente unicamente un letto sfatto, con doppie lenzuola: anche queste regalo del fratello scelte però dalla moglie, servivano un paio per dormire lei, ed un paio per i clienti, anche se negli ultimi mesi Efisieddu vedeva come la Tzia si dimenticasse sempre più di quel rito, che tanto il letto accoglieva ormai sempre la stessa persona.
Durante le notti, col silenzio interrotto a tratti dai gemiti morsi, nati nello stomaco e poi spinti su, con forza ma lentamente, come il percorso inverso di un boccone troppo grosso per essere ingoiato, la Tzia stringeva con intensità a se l’uomo, tanto che per qualche secondo dopo averlo mollato gli si potevano vedere gli aloni bianchi delle dita, e la stessa scena si ripeteva identica ogni volta. La Tzia, che sembrava diventare più bella dopo ogni incontro, giaceva come morta, le gambe morbide appena aperte nel rinfrescarsi la ferita, le valve carnose che lasciavano colare gli ultimi minuti, e la grossa mincia di quell’uomo che Efisieddu non riusciva a non guardare fino a quando non spariva dentro i pantaloni marroni di velluto, mentre il viso non rimaneva che un’ipotesi tra le ombre.

Mentre i primi denti sembravano cadere, pur senza motivo, in modo simmetrico, a coppie, ora era unicamente una questione di casualità determinare quali Tzia Cesara avrebbe sputato. La bocca della Tzia settimana dopo settimana stava diventando sempre più simile ad una rosea caverna liscia, priva di ogni asperità o forma che non fosse quella delle gengive.
Il problema non era solo quello. Se anche una bagassa sterile poteva essere ingravidata, non si sapeva quando avrebbe partorito quel piccolo bastardo perché nessuno sapeva quando erano state le ultime mestruazioni, senza contare che quell’enorme pancia non smetteva di ingrossarsi e che la Tzia era ormai incosciente praticamente la maggior parte del tempo.

Tzia Cesara era stata spostata da casa sua a quella del fratello, che stava nella parte alta del paese. Senza sensi e in quella condizione non poteva essere lasciata sola, e la casa di Antonio Piras era sicuramente più adatta ad accogliere la sorella gravida.
Magari, diceva Antioca, proprio un Gesù Cristo non ci nasce, che quella bagassa di tua sorella vergine non lo è mai stata, ma un Samuele sì, che sterile tanto lo è.
Come fervente cattolica, Antioca sperava che il miracolo avvenisse nella sua casa, e aveva trasformato la piccola cucina in una camera da letto per la cognata, essendo l’unica provvista di camino e quindi la più calda della dimora. Non passava ora senza che si avvicinasse piano alla donna addormentata per controllare che tutto andasse per il meglio, facendosi il segno della croce e sfiorando piano il ventre ingrossato attraverso la vestaglia appiccicata, e per evitare che la moglie stesse tutto il giorno china sulla sorella, Antonio aveva deciso che avrebbero controllato a turno le condizioni della Tzia.
Le faceva la guardia in quel momento, nel caso riprendesse conoscenza per pochi attimi come suo solito, Efisieddu seduto davanti al largo tavolo intagliato, che sbucciava con calma un clementino, avendo cura di togliere tutti i filamenti bianchi che gli rimanevano sempre in bocca ed era costretto a sputare. Con metodo, forse dettato più dalla noia di stare a controllare la Tzia invece di giocare, aveva diviso gli spicchi di mandarino puliti da quelli ancora bianchi, mentre i filamenti erano ammucchiati in una piccola discarica fuori dalla tovaglia arrotolata a metà tavolo.
Quando sentì il rumore d’acqua sul pavimento, pensò che la Tzia si fosse pisciata addosso, e gioì. Pronto a raggiungere lo spiazzo dove gli altri bambini giocavano, inspirò veloce l’aria calda e stantia della stanza per chiamare la madre appena aperta la porta, quando la Tzia cominciò ad urlare. La bocca era ormai svuotata dai denti, la pelle era sudata e stirata nell’atto così da far sembrare la Tzia un pesce fuori dall’acqua, boccheggiante alla ricerca degli ultimi istanti di vita.
Tra le gambe, non era piscio quello che usciva misto a sangue dalla topa. E subito capì.
Nella stanza affianco, quando si sentì urlare c’erano quasi tutti.
Antioca serviva delle pardule appena fatte all’Ufficiale, che ne osservava incantato l’impasto giallo ancora fumante saggiandone con un dito la morbidezza, mentre Antonio versava due tazze di vino rosato da dolce, che quasi non gli cadde quando sentì l’urlo appena attutito dalla porta semiaperta dal bambino.

Tzia Cesara stava partorendo. Le urla diventavano sempre più forti, più acute, mentre colavano giù dal letto gli ultimi rimasugli del liquido che era dentro di lei. Mentre Antioca entrava nella stanza seguita dall’Ufficiale, il piccolo Efisieddu aveva iniziato, senza che nessuno gli dicesse niente, a correre alla chiesa di San Pietro per avvisare i due sacerdoti. Antonio, ancora nel salotto dove erano fino a poco prima tutti quanti, svuotava delle brocche in un catino di rame da mettere a scaldare sul fornello mentre affilava sulla piccola pietra la sua rosoia da dare al medico della base per recidere il cordone ombelicale. Con un oggetto come quello non serviva il minimo sforzo, e le carni della sorella sarebbero state tagliate con precisione.
Il ventre era gonfio e pulsante, la topa era intrisa di sangue e si potevano distinguere i capillari col sangue nero, e quasi si poteva sentire la lentezza con cui il sangue ci si muoveva all’interno, arrancando in quei pochi millimetri di diametro.
Quando arrivarono i due sacerdoti, la donna stava già spingendo per buttare fuori dal suo corpo il frutto del presunto miracolo. Erano stati già decisi alcuni ruoli, e contrariamente a quello che sperava Efisieddu non era ben voluto all’interno della stanza, proprio ora che tutto si faceva interessante e non aveva alcuna intenzione di andare a giocare nella piazza davanti casa.
Antioca stava dietro la Tzia, accarezzandole il viso contorto dalle urla e dal dolore, e rinfrescandolo con acqua fredda della fontana. Al suo fianco i due sacerdoti che non volevano vedere la donna con la topa di fuori, pregavano mischiando salmi in latino con frasi in sardo e risposte in italiano, e cercavano di farle ripetere ai presenti, che mentre Antioca si sforzava per seguirli riproducendo il suono di quei termini sconosciuti, Antonio li mandava sotto voce a farsi inculare dagli asini.
Quando qualcosa iniziò a farsi strada fuori dal corpo della Tzia, solo l’Ufficiale Cioffi si rese conto che qualcosa non andava. La gravidanza era stata troppo lunga, a quanto aveva capito più di un anno, e lui credeva che la puttana sarebbe schiattata prima, o avrebbe cagato non un santo, ma un morto.
Più la topa della donna si dilatava, più urlava. Spingeva, e da un momento all’altro si poteva svuotare l’intestino per lo sforzo, rendendo tutto più difficile e poco igienico, oltre che schifoso.
Ma dopo aver visto, anche la merda gli andava bene. E la Tzia aveva smesso di urlare, occhi chiusi, bocca aperta piena di saliva.

Tra le mani, il dottore aveva un piccolo corpo vivo. Sporco di sangue e liquido, muoveva debolmente braccia e gambe non abituate all’aria, e lo guardava sorridente. Gli occhi, bianchi e vitrei erano aperti, ed il pelo era appiccicato al muso.
Sopra il corpo di un bambino, una testa caprina lo guardava e sorrideva. Con denti umani.[/more]

Note
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Bagassa: puttana
Bagna: sugo di pomodoro
Pardule: dolce composto da un disco di pasta dai bordi rialzati e ripieno soffice di ricotta e scorza di limone
Rosoia: coltello tipico sardo taglientissimo. Le più famose sono quelli di Pattada (lì la chiamano “resolza”)[/more]

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