I denti bianchi (1 di 3)

Autore – kkANO
[more] Il racconto è stato scritto tra ottobre e novembre 2009.
Inizialmente è nato per partecipare ad un piccolo contest di scrittura tra amici.
E’ stato dopo un fine settimana nel paese di mia nonna, Perdasdefogu, che è nata l’ispirazione: qualcosa che si legasse alla mia terra, ai luoghi che conosco da quando son bambino ed alle persone che li abitano, alle religioni, alle superstizioni, a quello che non si dice – che se non lo dici non succede.

Mi rincresce non essere riuscito a dare più colore ai personaggi ed all’ambientazione, ma ero fuori limite di caratteri già con questa stesura. Non nego che ho però spesso la tentazione di riprenderlo in mano e rifinire il lavoro.
Il racconto dovrebbe essere il primo di un filone dello stesso tipo, e proprio in questi giorni ho iniziato quello che dovrebbe diventare il secondo pezzo, “Labbra da bambina”.[/more]

I denti bianchi

Tzia Cesara, tossendo, sputò nel piattino che le era stato messo sotto il mento dalla cognata due piccoli denti candidi, non i primi e nemmeno gli ultimi, macchiati unicamente da un filo di saliva striata di sangue, molto probabilmente incosciente di quello che aveva fatto, come di tutto quello che le succedeva intorno negli ultimi tempi.
Stremata si muoveva sul piccolo letto, anche se i movimenti potevano ricordare a chi li osservava dall’alto più come i lenti e sentiti spasmi del lombrico quando viene punto a terra con un bastoncino e non può ritirarsi dalla calda luce del sole. Con l’aiuto dei quattro uomini la donna che teneva il piattino avrebbe dovuto, a breve, spostare Tzia Cesara per cambiarle le lenzuola bagnate di sudore e piscio. In quelle condizioni la vescica era poco più grossa del pugno di un bambino, e persino gli ultimi controlli sugli istinti erano svaniti,cosicché bisognava stare attenti che non si scaricasse del tutto dentro le lenzuola.
Erano passati quattro mesi da quello che doveva essere il momento.

[more]Tzia Cesara era malata.
La parola “Tzia”, ossia “zia” era solitamente usata per rispetto nei confronti delle donne anziane che, nella società di allora, erano zie di un po’ tutti i bambini del quartiere. In questo caso invece, dato che era il piccolo Efisieddu a parlare, cioè il figlio di Antioca e Antonio s’Impiegau – l’Impiegato, perché lavorava in Comune e sapeva scrivere – Piras, fratello di Cesara Piras, era solamente a titolo di parentela.
La piccola chiesetta di San Pietro appena fuori dal paese nascondeva i discorsi di Efisieddu. Circondata da nient’altro che la campagna, la struttura accoglieva con la stessa indifferenza i bisognosi di un aiuto divino e le donne intente a lavare i panni nei bassi lavatoi di pietra.
Figlio di impiegato, non si era trasformato come i suoi coetanei nella pessima imitazione di adulto. Stava seduto su una delle panchine di pietra, fregando i talloni sulla roccia verde di muschio che gli lasciava altrettanto verdi sfumature sulla pelle giovane e irritata. Il silenzio, lo sporco non lo avevano ancora preso, mentre i suoi coetanei abbandonavano ogni presente e futuro insieme alla saliva sul dorso di una pecora.
Ad un cenno proveniente dall’interno della chiesa, il piccolo saltò in piedi dalla panchina ed entrò nella casa del Signore, ricevendo una scompigliata di capelli da un uomo che si muoveva nella direzione inversa, uscendo dalle porte in legno massiccio. Gesti come questi erano rari quando fatti da uomini con le mani secche e dure come intagliate nel granito sardo, ed Efisieddu, nonostante si mostrasse infastidito, era contento di quella breve tenerezza.
Seduto al banco della chiesa, di fianco ad una figura inginocchiata, parlava veloce. Non sembrava un prete l’altro. Anche perché quella parrocchia un prete lo aveva già, il vecchio don Giulio. Efisieddu non ci parlava con don Giulio se non la domenica mattina dopo la messa obbligato dalla madre, perché Tziu Mauriziu, che lavorava in continente a Milano ed era comunista, aveva portato un po’ di quella roba in paese con lui quando era venuto per passare le ferie a casa. Ma la madre non voleva saperne di queste cose perché erano una famiglia per bene, e si faceva il segno della croce anche quando il marito diceva che forse con quel Marchis che voleva tutti uguali si stava bene. Poi però taceva quando la moglie gli rispondeva chinni prasciri prebeisi doppu, tui? – Chi pascola le pecore dopo, tu?[/more]

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