Nascita della fotografia a colori

Tutti pensano che la fotografia sia volutamente nata in bianco e nero per poi “colorarsi” successivamente. In realtà, se si pensa che l’intento di chi inventò la fotografia era di ottenere rappresentazioni fedeli del mondo, si deduce abbastanza facilmente come l’intento originale fosse in realtà ottenere immagini a colori. Purtroppo (o per fortuna) nonostante svariati tentativi, fu molto più facile (relativamente parlando, poiché la nascita della fotografia fu piuttosto complessa) ottenere immagini in scala di grigio, e quindi la ricerca si basò principalmente sullo sviluppare tecniche sempre più raffinate per il bianco e nero. Le ricerche per ottenere i colori in realtà continuarono. La storia della fotografia è fatta di tante piccole innovazioni che dalla sua nascita “ufficiale”, nel 1839, hanno portato a ciò che oggi conosciamo. Ci sono solo pochi grandi picchi, ed uno di questo è rappresentato dalla Autocromie dei fratelli Lumière, già inventori del cinematografo, che decretano, nel 1907, la nascita vera e propria della fotografia a colori.

Le problematiche relative alla riproduzione e al fissaggio dei colori furono già affrontate a suo tempo da Paul de Saint-Victore intorno alla seconda metà dell’800. Le prime ricerche furono orientate per ottenere il fissaggio dei componenti del colore per mezzo di agenti chimici e fisici. Inizialmente si privilegiò il metodo indiretto della tricromia e successivamente, intorno ai primi anni del ‘900, fu realizzato il processo industriale della tricromia fino ad approdare alle autocromie dei Lumière.

Famosi per la loro produzione di lastre bianco e nero gelatino-argentiche (la loro azienda, la Société Anonyme des Plaques et Papières photographiques A. Lumière et ses Fils, risiedeva a Lione ed era da anni una delle più importanti fabbriche produttrici di materiali fotografici, nonché laboratorio dei fratelli), nonostante l’ottima diffusione di queste ultime, essi si muovevano instancabilmente alla ricerca di procedimenti per ottenere fotografie a colori. Già il 30 maggio 1904 i fratelli Lumière avevano inviato una nota all’Accademia delle Scienze in cui veniva informata circa un “nuovo metodo per ottenere fotografie a colori”, sebbene il brevetto risalga al 17 dicembre 1903.
Nascono così le autocromie, vero punto di svolta nella storia della fotografia a colori poiché per la prima volta ci si trova innanzi ad un metodo, anche se non di rapido utilizzo, ben definito e facilmente commercializzabile.

Basandosi sulle ricerche di Maxwell e Ducos du Hauron, i fratelli Lumière si concentrano sulla realizzazione di un procedimento a “mosaico”, studiando diversi tipi di materiali atti a poter ottenere risultati apprezzabili. Il loro intento era quello di porre uno strato di microscopiche particelle, tinte nei tre colori primari, al di sotto dello strato di gelatina sensibile.
La scelta cadde sulla fecola di patate. I loro studi non si limitarono al solo tipo di materiale ma anche alla qualità dello stesso: furono studiate le proprietà delle patate provenienti da diverse parti del mondo per selezionare quelle con le caratteristiche migliori in quanto a trasparenza e regolarità.
La fecola veniva, come già detto, sminuzzata in microscopiche particelle. Successivamente venivano mescolate le particelle, le quali erano state precedentemente colorate rispettivamente di blu, rosso e verde. Queste andavano a comporre uno strato sottilissimo che veniva steso sotto la gelatina sensibile.

Per permettere alla luce di venir filtrata dalle particelle colorate prima di andare ad impressionare la gelatina, la lastra doveva esser impressa rovesciata, diversamente dal procedimento standard, ovvero con l’emulsione in senso opposto all’obiettivo.
Per fotografare un oggetto, ad esempio, blu, la luce passava attraverso le particelle colorate in blu e impressionava la gelatina sottostante. Le particelle rosse e verdi assorbivano la luce blu, di fatto lasciando intatta la gelatina. Parallelamente il processo avveniva per gli altri due colori.
Lo sviluppo agiva sulle parti di gelatina impressionata corrispondente ai singoli colori. Successivamente la lastra veniva sottoposta ad un procedimento di inversione, al fine d’ottenere una diapositiva a colori.

Chi fosse interessato alla parte più tecnica, può aprire il paragrafo qui sotto, altrimenti continuate dritto

[more]L’inversione è una variante dello sviluppo introdotto definitivamente proprio dall’autocromia, e quindi utilizzato ampiamente in tutto il ‘900 per gli sviluppi delle diapositive a colori (dagli anni ’30 in poi) ma anche delle stampe a colori delle diapositive.
Con questo procedimento il fototipo viene sviluppato normalmente ma non è eseguito subito il fissaggio. Lo si sottopone invece ad una soluzione fortemente ossidante (detta comunemente “sbianca”) composta preferibilmente da permanganato o bicromato di potassio che ossida ed elimina l’argento che si è precedentemente formato. Entrambe le sostanze, Infatti, in presenza di acido solforico trasformano rapidamente l’argento metallico in solfato d’argento, altamente solubile all’acqua.
In questo modo ciò che resta è il positivo dell’immagine: infatti dopo l’azione della sbianca sul supporto l’immagine negativa, composta dall’argento prodottosi durante lo sviluppo, viene eliminata, e il resto dell’emulsione, non ancora sviluppata, non subisce l’effetto della sbianca stessa. Nelle zone scure dell’immagine è ancora presente tutta o parte dell’emulsione.
Per impressionare l’emulsione sensibile ancora presente, si sottopone il fototipo ad una esposizione totale alla luce bianca, quindi si sviluppa di nuovo, producendo per annerimento l’immagine positiva. Al fine di evitare la presenza di residui sali d’argento sul fototipo, si procede infine al fissaggio.
Alla fine è visibile l’immagine a colori: le zone della lastra esposte, dopo la rimozione dell’argento da parte della sbianca, appaiono trasparenti, lasciando trasparire il colore. Così come per l’esposizione, anche per l’osservazione la lastra deve esser rovesciato, ovvero deve esser visionata osservandola dal lato dell’emulsione. Il mosaico ha filtrato e selezionato il colore, mentre l’argento prodotto durate il secondo sviluppo ha sagomato l’immagine positiva seguendo la traccia del reticolato. In questo modo il mosaico cromatico agisce sia durante l’esposizione che durante l’osservazione.[/more]

A causa della presenza dell’immagine a colori contemporaneamente a quella bianco nero, le autochrome appaiono più scure delle odierne diapositive. Questo fattore e il loro essere fototipi unici, non duplicabili, permise la continuazione del mercato delle lastre dipinte a mano, più brillanti e soprattutto duplicabili all’infinito. Inoltre le autochrome, a causa del filtraggio della luce da parte del mosaico di fecola di patate, hanno una scarsa sensibilità alla luce, il che aumenta la durata dell’esposizione.

Le autochrome dei fratelli Lumière ebbero subito rapida diffusione e mantennero il loro primato sino al 1935, ovvero sino all’introduzione degli attuali (fino a poco tempo fa) materiali fotosensibili. Sin da subito inoltre, il metodo dei Lumière fu alla base di procedimenti praticamente simili messi in produzione da altri fabbricanti. Si può citare il procedimento Dufaycolor di Louis Dufay, introdotto nel 1908 (che sostituiva il mosaico colorato con un reticolo inciso meccanicamente) o anche i procedimenti dell’Agfa, in cui si sostituì la fecola di patate con gomma o resina.

Per concludere, nella gallery qualche esempio di autocromie

Fonti
-Wiki Ita|Eng

-Cartier Bresson A., Le Vocabulaire Technique De La Photographie, Marval/Paris Musées, Paris, 2008.
-Scaramella L., Fotografia. Storia e riconoscimenti dei procedimenti fotografici, De Luca Editore, Roma, 1999.

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