Storia di un impiegato


Quando è uscito “Storia di un impiegato” avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile.
L’idea del disco era affascinante. Dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico.
E ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi.

Nel 1971 Fabrizio De André firma il suo capolavoro, ritenuto il miglior disco italiano di tutti i tempi: “Storia di un impiegato”.
Si tratta di uno dei primi concept album italiani, un album, cioè, in cui le canzoni sono legate l’una alle altre da un filo narrativo, come sotto l’aspetto musicale,sviluppando complessivamente una storia.
Una storia che dipinge un chiaro quadro dello stato sociale di quei tempi.
Per la prima volta ascoltiamo un De André politico, anarchico, che con i suoi versi riesce ad esprimere le contraddizioni in relazione alla vita borghese, il potere, e chi lo subisce.

Il protagonista è un impiegato, una figura dedita alla noiosa quotidianità della propria vita fino a quando ascolta “La canzone del maggio”:
Un canto francese in cui gli studenti parigini che hanno partecipato alla rivolta si scagliano contro i loro colleghi che non hanno trovato il coraggio di ribellarsi al sistema capitalistico, accusato di produrre sfruttamento e ingiustizie sociali e di manipolare le coscienze con le verità dei mass-media.

Il protagonista è un individualista impiegato trentenne, dedito come molti lavoratori della sua categoria, molto più alle piccole faccende quotidiane e familiari che ad una visione più ampia dei diritti/doveri della collettività.
Ascoltando il brano studentesco cinque anni dopo le lotte, tuttavia, l’impiegato, nel brano “La bomba in testa” comincia a chiedersi per quale motivo dei ragazzi poco più giovani di lui, invece di adagiarsi in una vita costellata di frasi fatte (“Grazie a Dio”, “Buon Natale”) e di posto di lavoro sicuro, si siano lanciati in una disperata rivolta così feroce e, quasi certamente, condannata alla sconfitta.

Si rende conto, quindi, di trovarsi a far parte di quella schiera di persone che gli studenti combattevano, inchiodato al suo piccolo mondo borghese e alla sua vigliaccheria, dovuta alla sottomissione automatica che il potere impone quando tu lo accetti.
E proprio quando la sua età e le sue abitudini lo potevano completamente mettere fuori gioco, si accorge di avere la forza per ribellarsi al potere stesso anche adesso che le rivolte studentesche sono finite, e comincia ad immaginare un modo per farlo, e per “farcela da solo”.

Qui inizia la parte onirica del disco, l’impiegato sogna di gettare la bomba “Al ballo mascherato” a cui partecipano tutte le maschere della società, tutte le figure, le fedi e i miti che conformandosi al sistema ha sempre rispettato e che ora smaschera su un beffeggiante ritmo swing.
Nessuno viene risparmiato: Cristo “drogato da troppe sconfitte”, costretto a rappresentare adesso proprio quella classe clericale ricca ed egoista che con le sue idee avrebbe invece voluto combattere, e sua madre Maria, offuscata dall’importanza di un figlio così glorioso e che rimpiange quando era incinta come tutte le madri normali, La statua della libertà, l’ammiraglio Nelson e perfino i propri genitori.
L’ultimo a morire è l’amico “…che mi hai insegnato il come si fa”.
Con la sua uccisione l’impiegato, in questo sogno, ha portato a termine la propria liberazione, si è ribellato perfino contro chi gli ha insegnato a ribellarsi, arrivando ad un individualismo estremo, senza però rendersi conto che il suo gesto lo avvicinerà al potere.

Ma l’illusione dell’impiegato durera’ poco.
Infatti nel successivo brano, Sogno numero due, un parlato quasi psichedelico in cui la voce di De Andrè riecheggia come uno sparo nel buio, la voce narrante è quella di un giudice.
L’impiegato è stato infatti scoperto, e ora crede che ad attenderlo ci sia una pena terribile.
Scopre invece, attraverso le parole del giudice, che il potere gli è grato per quella bomba, perché il potere si deve sempre rinnovare, e distruggendo una parte di esso, l’impiegato si mette alla pari del potere stesso che credeva di annientare.

Il sogno prosegue con un incubo, la “Canzone del padre”, l’impiegato si ritrova a prendere il posto del padre ucciso al ballo mascherato, rivive una vita lancinante, fatta di illusioni e di relative delusioni, di difese disperate della propria integrità, del proprio denaro, delle proprietà, non è più un sogno, ma un incubo.
Dalla posizione del padre, poi, l’impiegato puo’ vedere quanto sia snervante una vita sempre uguale, fra crisi di coppia e conti in banca che piangono.
La moglie è sempre più distante da come l’aveva conosciuta, il figlio, disperato come e piu’ del padre, prende la via della droga e si lascia morire, senza la preoccupazione di rialzarsi.
Anche la famiglia, piccola costruzione gerarchica, e’ quindi un fallimento e non puo’ costituire un ancora di salvezza per chi cerca di liberarsi dal potere.
L’impiegato, a questo punto, si sveglia.
E’ sudato, ma ha le idee più chiare. Prima della fine del sogno si è rivolto idealmente al giudice attaccandolo (“Vostro onore sei un figlio di troia”) e, finalmente nella realtà, lancia il guanto della sfida al potere: “Ci vedremo davvero, io ricomincio da capo”.

Da notare che l’impiegato stesso si definisce un “trentenne disperato”, ed arrivi a questo gesto come ad un ultima, estrema mossa per cercare di salvarsi, conscio già, forse, di non poterci riuscire.

Purtroppo per lui la sua abilità dinamitarda rimane nel sogno, e, invece del Parlamento, ad esplodere è un innocua edicola.
Questo è il momento di maggiore disperazione dell’impiegato, a questo punto capisce di non avere scampo, di avere fallito totalmente, e, nei giornali dell’edicola che salta in aria, gli sembra di scorgere l’immagine della sua donna che, contrariata dalle sue gesta folli, lo lascia solo, disperato, avvilito, distrutto.

Dal carcere, l’impiegato si rivolge a lei, in una sorta di preghiera d’amore che ripercorre tutta la loro storia.
Il sentimento è passato anche sopra le incomprensioni di carattere ideologico, ed è un qualcosa di troppo personale e complicato da raccontare (“un amore così lungo tu non darglielo in fretta”).
Nella canzone c’è anche molta amarezza, per come la donna amata non abbia resistito al richiamo della società borghese, concedendosi, ora che l’impiegato è in carcere, al primo uomo che la mantenesse.

L’ultima canzone del disco, Nella mia ora di libertà, l’impiegato racconta il carcere, negazione massima della libertà secondo il pensiero comune.
Eppure anche la prigione è una piccola metafora del mondo: i secondini sono il potere, i carcerati le vittime che dovrebbero subire in silenzio.
E diventa più che mai simbolica quell’ora d’aria in cui i secondi possono evitare il rapporto con i primi, “chiudendoli” a loro volta metaforicamente dentro il carcere.

L’individualismo, sconfitto dai fatti, viene sostituito a questo punto da una nuova forma di lotta: la rivolta di massa, la stessa degli studenti del Maggio francese che apriva il disco, la stessa che mise l’impiegato nella condizione di guardarsi intorno e capire “che non ci sono poteri buoni”.

Il termine di questo bellissimo disco sembra comunque l’invito, ancora una volta, nonostante tutto, a tentare la rivoluzione di massa, richiamando gli oppressi: i carcerati, tutti insieme, si ribellano ai secondini.
Nonostante il potere alla fine si sia imposto (nei brani dell’album, come nella storia), lui non riesce comunque a chinare la testa e ad arrendersi.
Il disco si conclude come si era aperto: con i versi più significativi della Canzone del Maggio.

“Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti”

Recensire questo album mi ha commosso.

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